Joy Summer Camp è un centro estivo molto particolare. Nasce nel 2017 dalla onlus Sport Senza Frontiere per accogliere bambini e ragazzi dei territori del centro Italia, colpiti dal terremoto del 2016 che vivono ancora oggi situazioni di disagio, nella prossima edizione si rivolgerà anche ai figli delle famiglie sfollate dopo il crollo del ponte di Genova.
I “tutor” migranti dal Gambia e dall’Egitto
L’altra particolarità di Joy summer camp è quella di prevedere la presenza, accanto agli educatori, coordinatori e psicologi della Onlus, di ragazzi rifugiati e richiedenti asilo, seguiti da Sport Senza Frontiere e dalla Fondazione Vodafone grazie al progetto di inclusione sociale attraverso la pratica sportiva “Sport di prima accoglienza”. Il progetto inserisce i ragazzi nei corsi sportivi multidisciplinari( running, atletica, calcio, nuoto, basket,volley, duathlon) delle associazioni sportive aderenti alla rete solidale dell’associazione. Al termine del loro percorso di inclusione, Sulyaman Senghore e Abdo Ageza, sono stati lo scorso anno per la prima volta al Camp come “tutor” soprattutto per la disciplina del running che è la loro specialità. Un’ esperienza di “buone pratiche” che riequilibra la narrazione pubblica tesa a giudicare la presenza dei migranti nelle nostre città solo come un peso per la collettività.
Un viaggio durato 2 anni
“Quando sono a Sport senza Frontiere – dice Sulayman sono sempre felice, non ho nemmeno nostalgia di casa. Qui ho ritrovato una vera famiglia e non penso ai momenti tristi che ho vissuto. Dunque per me passare le mie ferie con loro sarà soprattutto una grande festa. Il primo anno che sono andato al centro estivo è stato un miracolo per me: ho avuto l’opportunità di diventare amico dei bambini. Ci siamo raccontati ognuno la propria storia fatta di momenti molto difficili: per me il viaggio dal mio paese durato 2 anni, con un anno passato in Libia, sei mesi in una prigione e altri sei a nascondermi prima di riuscire a fuggire e ad arrivare in Italia. Per loro il terremoto che ha distrutto le loro case e ucciso, in qualche caso, dei familiari. Abbiamo fatto un gruppo su what’s app – racconta con lo slancio di un bambino – e ci sentiamo sempre. Ora cominciano già a tempestarmi di messaggi per sapere in quale delle quattro settimane io sarò presente al campo per rivederci, ma ancora non so quando mi daranno le ferie.”
Abdo, il runner pizzaiolo
Quella di Abdo è la storia di un “self made boy”. Un ragazzo che si è fatto da sé. A 13 anni Abdo lavora nei cantieri edili con il padre a Tanta, una città a cento chilometri a nord del Cairo. Guida i camion che trasportano la sabbia. Un giorno però il suo camion viene investito da un pullman turistico e nello scontro muoiono 8 americani e 21 altri passeggeri restano feriti. Per Abdo il lavoro finisce lì. Il padre decide di farlo partire e lo mette su un barcone in partenza per l’Italia, spera che il suo ragazzo possa trovare un nuovo lavoro per mandare soldi alla famiglia. Nel maggio 2013 il ragazzo arriva a Reggio Calabria come minore non accompagnato e subito viene inserito in una casa famiglia nella regione. Poi si trasferisce nella Casa Famiglia l’Approdo di Roma, dove resta fino ai 18 anni. Intanto comincia a correre. E’ un talento naturale che scopre di avere, casualmente, correndo per la strada. Attraverso Alberto Pietromarchi, membro dell’associazione Luconlus arriva a Sport Senza Frontiere e comincia ad allenarsi seriamente: due volte alla settimana allo Stadio dei Marmi. Partecipa a molte gare e le vince.
Francesca Cusumano
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