Mediatori culturali: insieme per il riconoscimento della professione

NAIM – foto di Giada Stallone

Chi è un mediatore culturale? Cosa vuol dire essere mediatore culturale oggi in Italia ed in Europa? Cosa significa esserlo in luoghi dove i diritti per i migranti sono sempre di meno, dove forme politiche espressamente razziste stanno iniziando a mettere radici, dove le Ong ricevono continue penalizzazioni e dove si impediscono i salvataggi in mare?
A partire da questi interrogativi, venerdì 14 giugno nella sede di Esc in Via dei Volsci, è stata introdotta NAIM, neonata Associazione Nazionale di Intermediatori Culturali: l’Associazione nasce per riunire i mediatori presenti sul territorio per una mobilitazione collettiva, in termini di collaborazione lavorativa e di battaglia per il riconoscimento di diritti.
Attraverso le voci dei mediatori stessi, accorsi da diverse parti di Italia, è stato possibile delineare anzitutto la figura del mediatore culturale e comprendere quali siano le reali necessità e problematiche dell’essere mediatore. Nonostante il torrido caldo, la partecipazione è stata attiva.

Francesca Agrò, mediatrice culturale e membro attivo di NAIM, ha tratteggiato minuziosamente la figura del mediatore culturale: “per mediatore culturale intendiamo “un operatore sociale che si occupa di stranieri e può essere straniero o italiano. È la figura che si occupa di rimuovere ostacoli linguistici e culturali che si frappongono tra utenza straniera e gli operatori italiani all’interno dei pubblici servizi nel processo della loro fruizione. Non è un mero traduttore e deve esplicitare ad entrambe le parti gli elementi di incomprensione”.
Per quanto riguarda la formazione del mediatore esistono dei corsi riconosciuti sia privati che pubblici, come alcuni corsi universitari ma la maggior parte di essi riservano particolare attenzione prevalentemente allo studio della lingua. “Il mediatore nella maggior parte dei casi lavora su chiamata, non ci sono progetti specifici che non siano temporanei. Solo in pochi casi c’è un contratto”.

Il mediatore come voce della voce

Proprio perché primo punto di incontro tra gli autoctoni ed i migranti, i mediatori sono i fondamentali ed i principali attori di incontro tra due culture diverse. Rappresentano la prima socializzazione proprio perché detentori di conoscenze dell’una e dell’altra società.
Partecipano in prima persona alla mediazione di conflitti, non per trovare una soluzione, ma per spiegare alle due parti le differenze tra culture ed espressioni. Una figura importantissima ma allo stesso tempo non sufficientemente riconosciuta, sia da un punto di vista sociale che da quello legislativo.
“Non basta solo regolarizzare la professione, perché spesso le normative non tutelano il lavoratore ma soprattutto non lo rappresentano in maniera sufficiente” argomenta Moes, membro fondante della Associazione. “Attualmente la figura del mediatore è tutelato da alcune normative perlopiù regionali, ma queste leggi sono state elaborate come mera soluzione temporanea ad un problema. Vorremo avere un ruolo sociale e poter dire il nostro parere sulla società. Noi mediatori ci sentiamo parte della società, toccati dalle politiche sulle migrazioni e sulle chiusure dei porti. Spesso ci sentiamo impotenti perché messi davanti all’impossibilità di agire concretamente difronte a richieste di aiuto”.

Faccia a faccia con i mediatori: Bertè

Bertè si definisce una persona molto fortunata: divenuto mediatore culturale per caso, “era la letteratura che mi interessava”, mentre lavorava per un festival di cinema africano a Perugia, ha iniziato con una formazione di 300 ore da mediatore transculturale e da lì ha continuato a formarsi, senza sosta. Ora è vicepresidente di NAIM. Parla italiano e francese ma nel tempo si è alfabetizzato rispetto diverse lingue africane, ad esempio il bambarà. Ha lavorato per molti progetti, in molti contesti e con diverse associazioni. Proprio sul lavoro delle associazioni pone l’accento: è necessario che esse inizino a collaborare tra di loro al fine di vedersi riconoscere socialmente e legalmente. Passando agli aspetti operativi
La mediazione non segue uno schema preciso: è necessario comprendere la persona che ci si trova davanti per capire in che modo rompere il ghiaccio, quali parole utilizzare. Quando faccio mediazione penso addirittura a come sedermi. È un momento di assoluta vicinanza con l’altra persona e l’approccio è importante.” La mediazione si acquisisce tutti i giorni, ma la formazione deve essere continua. Se da un punto di vista legislativo è necessario sviluppare maggiori strumenti per vedersi riconosciuta la professionalità, anche rispetto al resto dell’Europa, dove anche nei diversi paesi che “hanno sicuramente fatto dei passi avanti rispetto l’Italia, il principale problema è che la legislazione non prende mai in considerazione le esigenze dei migranti. È una battaglia: Non mi fermo a lamentarmi perché non mi piace farlo”.

Mediazione e antropologia: Miriam Castaldo

Miriam Castaldo è un’antropologa, laureata e dottorata in antropologia medica e socio fondatore dell’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia (ANPA), si pronuncia sul tema della legittimazione della professionalità.
“Il mediatore come l’antropologo non hanno una professionalità riconosciuta e, pertanto, non possono avere né un contratto, né un inquadramento salariale di qualità e che corrisponda alla propria professionalità e alla propria preparazione”.
Il punto focale è certamente avere chiara cognizione di “chi si è”: per quanto la figura del mediatore e dell’antropologo siano professioni molto diverse è possibile la collaborazione tra di esse attraverso un “meticciaggio”. In questo senso, non può esserci sovrapposizione di ruoli. “C’è la possibilità di realizzare un lavoro congiunto tra antropologia e mediazione culturale su un terreno comune. Il grosso sforzo che i mediatori devono fare, a mio avviso, è quello di far sì che la propria professione venga normata e riconosciuta”.

Giada Stallone
(19 giugno 2019)

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