Nel libro della giornalista Francesca Mannocchi – autrice di reportage, documentari e inchieste su vari Paesi del Medio Oriente – c’è la realtà in tutta la sua complessità.
Io Khaled vendo uomini e sono innocente è la storia di un giovane libico che, dopo aver combattuto per liberare il suo Paese dalla dittatura di Gheddafi, decide di diventare un trafficante. “Chi ha armi e soldi ha potere. Su questo il Paese non è cambiato. Prima era il regime di Gheddafi, oggi è il regime di tanti Gheddafi minori”. Khaled è uno che ha capito, non nasconde il lavoro che fa perché “Io sono la sola cosa legale di questo Paese. Prendo ciò che è mio, pago a tutti la loro parte… Tutti cercano di muoversi verso la luce. Io no. Io resto qui, sul limite, sul confine. Chi vuole attraversarlo verrà da me, che il prezzo lo pago restando”.
Perché scegliere la letteratura per raccontare la realtà dei nostri giorni?
Perché soprattutto in luoghi nebbiosi e pieni di non detti come la Libia la letteratura consente di restituire sfumature e dettagli che non rientrano nella cronaca giornalistica. La letteratura mi ha consentito di unire i puntini, di andare in profondità e di esprimere un mio punto di vista attraverso i personaggi veri o di finzione.
Dalle vicende raccontate nel libro emerge centrale il tema universale del confine tra bene e male, che in situazioni estreme diventa molto sottile…
Il personaggio di Khaled con le sue vicende è la dimostrazione di questa centralità, che è vera non solo in Libia, ma anche in tante altre situazioni, dove bene e male si intrecciano e si confondono: nessuno nasce trafficante o assassino, noi diventiamo quello che siamo in base agli stimoli e insegnamenti che riceviamo. Khaled è un’altalena tra due poli: da una parte il nonno, che significa tradizione, saggezza, ma anche lungimiranza quando lo mette in guardia dai camaleonti che di volta in volta scelgono la convenienza, e dalle illusioni di libertà; dall’altra l’illegalità, il malaffare che rappresenta una facile tentazione per una generazione che ha avuto l’esempio di padri conniventi con il regime di Gheddafi.
Nessuno oggi può dire che non sa cosa avviene in Libia e nel Mediterraneo; si convive con l’orrore ai nostri confini. Eppure questa conoscenza non scalfisce la sostanziale indifferenza. Perché?
È vero che siamo sommersi da informazioni, ma ricevere informazioni non vuol dire conoscere e capire. Dal discorso pubblico sull’immigrazione sono scomparsi i motivi per cui gli uomini si muovono, per cui attraversano il Mediterraneo su gommoni, scomparse le politiche di accoglienza, la buona gestione dei flussi migratori. Si parla solo di politiche di deterrenza, alimentando le paure, perché l’immigrazione è usata come tema di scontro politico. D’altra parte, in questi tempi bui, alla strumentalizzazione politica dell’immigrazione si è risposto con messaggi ideologizzati che hanno fatto enfasi sulla vittimizzazione del migrante, per difenderne la dignità, ma questo ha privato il ragionamento pubblico della complessità.
Le realtà positive di integrazione, gli spunti di linea politica che delineano un processo virtuoso sono poco rappresentati. Il mondo della comunicazione, per fare un salto di qualità, deve raccontare di più queste realtà?
L’Italia è un Paese che si è distinto per l’accoglienza, ha dato vita al primo corridoio umanitario, nella scuola i bambini vengono integrati, e questo si racconta troppo poco. Ma è anche il Paese di Mafia capitale, che ha speculato sull’accoglienza. Il problema è che ci si è mossi sempre secondo una logica disperata, quella dell’emergenza. Si parla di Libia per i traffici di esseri umani, ma non per la guerra civile, per la mancanza di denaro, per i traffici di carburante. Insomma, è ignorata la complessità.
Lei è un bell’esempio di come anche in presenza di limiti, come quelli della malattia, si possa trovare una collocazione positiva nel mondo…
A maggior ragione da quando il mio corpo mi ha messo alla prova con la malattia, che è per me ogni giorno una sfida, mi sono ancor più convinta che bisogna vivere non facendo il tifo e appartenendo a un branco, ma ricordandosi che siamo più fortunati di tanti altri esseri umani. Quindi la sfida per tutti è quella di avere consapevolezza del fatto che esistono situazioni drammatiche e che non dobbiamo ignorarle: ecco, questa potrebbe essere una ricetta per essere tutti un po’ più generosi.
Luciana Scarcia
(24 giugno 2019)
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