Al ricco vocabolario che identifica chi lascia il proprio Paese: migrante, e-/immigrato, profugo, rifugiato, esule ecc. si è aggiunto un nuovo termine: expat, abbreviazione di expatriate, per definire chi espatria volontariamente. L’expat, a differenza dal migrante, può spostarsi senza problemi in Europa o altrove e nessuno gli erge di fronte un muro o lo rinchiude in strutture di accoglienza; ha i documenti in regola, un passaporto, magari un conto in banca.Francesca Rigotti è stata una expat in Germania, dove ha insegnato all’università di Gottinga e messo al mondo due figli da padre tedesco: una emigrata privilegiata, dunque, ma pur sempre “dislocata”, con le difficoltà di sentirsi a casa e di usare una lingua non sua. Partendo dalla sua personale esperienza ha analizzato il linguaggio e l’immaginario relativi alle migrazioni e approfondito aspetti della cultura europea, nel libro Migranti per caso. Una vita da expat, uscito per R. Cortina.
Il familismo amorale alla base dello slogan “prima i nostri!”
Alla base dello slogan “prima i nostri” c’è il principio di analogia tra Stato e famiglia: convinzione radicata nella tradizione classica con Cicerone, riprende vitalità ai giorni nostri l’idea che un buon governo sia quello gestito da un padre/governante, autoritario ma benevolo, che agirebbe per il bene della famiglia/Stato, dimostrando di conoscere e seguire gli interessi dei familiari/sudditi. Si tratta del familismo amorale – espressione coniata dal sociologo americano Banfield nel 1958 – con cui si intende quel tipo di azione sociale orientata a promuovere innanzitutto gli interessi della propria famiglia, con l’esclusione non solo di chi non fa parte dei “nostri”, ma anche del principio del merito. In virtù della tutela dei diritti di chi risiede all’interno dei confini di uno Stato, quest’ultimo è tenuto a decidere chi può entrare e chi no. Ma – fa notare la Rigotti – qui si evidenzia una contraddizione tra il diritto universale alla libertà di spostamento e l’esistenza dei singoli Stati che occupano tutto lo spazio sulla Terra e che racchiudono dentro i propri confini i prossimi, i “nostri”, tenendo lontani gli altri. Cosa che potrebbe anche essere moralmente accettabile a condizione però che esistessero degli spazi non occupati dagli Stati. Il migrante, con la sua sola esistenza, mina “quel nesso precario tra nazione, suolo e monopolio del terreno statuale, che è alla base dell’ordine mondiale”. Alla porosità del nostro mondo globalizzato e interconnesso nelle informazioni e immagini si contrappongono i muri delle nostre nazioni.
La paura delle migrazioni espressa da metafore acquatiche
Una metafora alternativa: zona incontro
Per contrastare la chiusura la Rigotti propone di “affrontare la mutata realtà sociale non affermando il proprio ‘io’ o il ‘noi’ escludente, ma accettando di essere ‘meno io’, ‘meno noi’ ” e usa la metafora della zona incontro, che dovrebbe avere la forza di superare l’immagine di una società statica nella quale ‘integrare’ gli immigrati. La proposta è indubbiamente interessante, poiché viviamo già in una società pluralizzata, dalla quale non c’è via di ritorno a un passato di omogeneità e purezza; ma perché diventi una prospettiva culturale ha bisogno di ulteriore elaborazione e di azioni concrete capaci di far convergere gli interessi degli autoctoni e quelli degli stranieri.
Luciana Scarcia(16 agosto 2019)
Leggi anche:Viaggio tra gli expat: quando a emigrare siamo noiViaggio tra gli expat: partire per scoprire il mondoLorenzo, attore che sogna e vive in AmericaMulticoolty: cittadini del mondo in un blog