Alla fermata del bus 437 che dalla metro Rebibbia conduce all’Ufficio Immigrazione in zona Tor Cervara, periferia Est di Roma, in molti attendono l’arrivo di una vettura: “Sono dieci minuti che aspetto e non si vede nessuno”. Altri, come i due ragazzi africani appena arrivati, ascoltano in disparte e cercano di carpire informazioni. Quando finalmente arriva, l’autobus si riempie in breve tempo di una folla di individui trafelati, usciti di corsa dalla vicina stazione metro, con il volto serio e una cartellina colma di documenti sotto il braccio. È l’esercito di immigrati e stranieri, provenienti dalle zone più disparate della città, che ogni mattina si dirige all’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma.
Una stradina di Tor Cervara
Raggiunta la fermata di destinazione, il fiume di uomini e donne si riversa a passo sostenuto in via Raffaele Costi, la strada sconnessa e dissestata che conduce in via Teofilo Patini, dove si staglia la sede dell’Ufficio Immigrazione: un imponente edificio protetto da un’alta inferriata e presidiato da militari e poliziotti. L’unico luogo nei paraggi che sembra effettivamente frequentato, poiché tutt’intorno appaiono soltanto capannoni industriali e molti edifici grigi e fatiscenti, all’apparenza in disuso.
Non è mai troppo presto
“Anche ieri sono venuto alle 7 e non mi hanno fatto fare la domanda. Mi avete detto di tornare oggi, e pure oggi niente: fate entrare solo minorenni e quelli sulla sedia! Per me sempre domani, domani, domani…”, urla in preda alla rabbia un ragazzo africano all’indirizzo dei militari e dei poliziotti che presidiano l’ingresso.A metà mattina l’Ufficio Immigrazione non è più gremito: gli utenti sono già stati smistati nei vari uffici di competenza, i molti richiedenti asilo attendono ancora il proprio turno, incanalati nelle lunghe file originate dai vecchi e malandati separa fila siglati “Aeroporti di Roma”. Nell’ampio cortile dell’edificio sostano soltanto sparuti gruppi di persone intente a conversare o a fumare. L’emergenza è già conclusa, spiegano. Tutti gli utenti, infatti, prima o poi imparano a proprie spese che non è mai troppo presto per presentarsi ai cancelli di ingresso: molti si svegliano all’alba per potersi inserire nella lunga fila di persone che attende l’apertura degli uffici, altri preferiscono addirittura trascorrere la notte in strada, accampandosi in prossimità dell’entrata.
Capire e farsi capire
In una delle grandi sale, al piano terra dell’Uffico Immigrazione, che ospita gli sportelli aperti al pubblico si assembla una folla variegata. Sono tutti in attesa del proprio turno, sebbene non abbiano mai ricevuto alcun numeretto e il grande display che troneggia al centro del soffitto non dia segni di vita: “Dobbiamo aspettare che chiamino”. Dalle postazioni, di tanto in tanto, un addetto chiama a gran voce il nome dell’utente di turno, talvolta indicando il numero dello sportello talvolta omettendolo. Poco importa se i microfoni non funzionano e molti non comprendono la lingua: all’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma i mediatori culturali e i traduttori sembrano totalmente assenti.La situazione è tesa: c’è chi attende dal primo mattino con i figli al seguito, i bambini annoiati cominciano a lamentarsi, rendendo ancor più difficile per tutti riuscire a decifrare cosa urlano gli addetti allo sportello. Come spiegare, poi, che non si è riusciti a udire il proprio nome pur non avendo mai abbandonato la sala?
Il lieto fine di Laura
Laura invece, quarantenne peruviana, esce dalla sala sorridente e sollevata: “Mi hanno detto che da adesso in poi non devo più tornare all’Ufficio Immigrazione, ma fare tutto alla posta. Per fortuna non devo tornare qui, anche perché è difficile chiedere un altro permesso a lavoro e perdere mezza giornata”. Fa per andarsene, poi torna indietro e aggiunge ridendo: “Dentro ho incontrato una mia amica: è dovuta venire qui perché nei documenti avevano scritto che era maschio”.
Silvia Proietti
(13 novembre 2019)
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