Un percorso complicato quello che si sono trovati a dover affrontare i centri anti violenza della rete Di.Re con l’afflusso massiccio nelle proprie strutture disseminate sul territorio, spesso affidate al lavoro di volontari, di “utenti” particolari come le donne migranti richiedenti asilo o rifugiate. Come rispondere ai bisogni di chi vorrebbe non parlare più della violenza subita, ma solo essere aiutata a ottenere “un’identità” con i documenti, il permesso di soggiorno, un lavoro per iniziare una nuova vita?Di questa sfida si è parlato alla conferenza stampa convocata martedi scorso nella Giornata internazionale dei diritti umani, alla Casa internazionale delle donne di Roma, per presentare i primi risultati del progetto Leaving violence – Leaving safe, realizzato da D.i.Re – Donne in rete contro la violenza in partnership con l’ Unhcr .
50 richiedenti asilo e rifugiate accolte nei centri col supporto delle mediatrici culturali
Il progetto ha permesso di accogliere, nei diversi centri della rete Di.re distribuiti sul territorio, 50 donne richiedenti asilo e rifugiate con il supporto di 14 nuove mediatrici culturali provenienti da 8 paesi: Nigeria, Eritrea, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, Tunisia, Marocco, Ecuador e Albania di cui dieci avviate ai tirocini.Ottantacinque gli enti territoriali con cui i centri antiviolenza hanno avviato relazioni. Alcuni di questi stanno per firmare i protocolli d’intesa con le Commissioni territoriali. “ Un segnale molto positivo”, ha sottolineato Laura Pasquero, esperta di D.i.Re che ha curato il monitoraggio costante del progetto, e che ha messo in evidenza come in alcuni casi il progetto abbia fatto da “volano” per attrarre anche donne originarie di altri paesi, già presenti regolarmente sul territorio italiano.“Le donne che vengono accolte nei centri antiviolenza della rete D.i.Re sono state vendute e maltrattate da altre donne che le hanno tradite – ha sottolineato Carmen Klinger operatrice e mediatrice culturale dell’Ecuador che lavora nel centro Olympia De Gouges di Grosseto – sono sopravvissute a una serie di violenze terribili che si stenta a credere possano essere accadute a una stessa persona. Per questo la prima cosa da fare è conquistare la loro fiducia, ascoltare di cosa hanno bisogno e rispettare i loro tempi, anche se ci possono sembrare molto lunghi: loro comunque stanno andando avanti, non sapendo bene come fare, ma lo vogliono fare e noi siamo lì per aiutarle”.Per “trasformare il tempo-purgatorio della richiesta di asilo in un tempo di rigenerazione di sé, i centri antiviolenza possono offrire l’occasione per immergersi in una relazione tra donne non giudicante e orientata alla consapevolezza dell’autodeterminazione, dopo che la propria vita è stata nelle mani di altri, dai trafficanti, alle istituzioni dalle quali oggi dipende il permesso di soggiorno”, ha spiegato Valentina Torri, esperta del Centro Pronto donna di Arezzo.“Nel nostro centro di Torino all’inizio c’era una certa paura da parte delle operatrici, una difficoltà nell’accettare la differenza tra le problematiche delle donne migranti e rifugiate e quelle presentate da donne che cercavano di liberarsi da una schiavitù di rapporti violenti con il partner – ha raccontato Silvia Sinopoli operatrice del Centro Emma – ma con l’arrivo di Florence Johnnye, che fa la mediatrice culturale dal 2007 in strutture pubbliche, i problemi si sono appianati. A Florence, che le donne chiamano “zia” perché ha una certa età, le donne riescono a raccontare la loro ‘vera’ storia e a superare la vergogna che provano per quanto è successo loro.
Francesca Cusumano(11 dicembre 2019)
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