Quando la preghiera è orfana della coralità della Moschea

Come si fa il ramadan, il nono mese del calendario lunare musulmano, dedicato al digiuno, alla preghiera e all’autodisciplina dalla religione islamica, ai tempi del coronavirus, in case piccole e stipate di gente, o nelle strutture di accoglienza dove dai 50 agli 80 ragazzi, in media tra i 17 e i 20 anni, sono costretti a vivere tutti insieme, “chiusi dentro”?Ali, Mohamed e Yacouba non si sono neppure sognati di disattendere a quello che è un precetto-pilastro della religione musulmana, ma spiegano quali sono le difficoltà che stanno incontrando “sul campo”. Quest’anno il ramadan, Ali, un ragazzo marocchino di sedici anni, lo sta passando chiuso in casa. Un piccolo appartamento in un edificio occupato, dove abita con la sua famiglia composta dalla madre e dal padre e da 5 fratelli, dei quali il più piccolo ha appena 3 mesi. Il padre di Ali, venditore ambulante, ha dovuto chiudere la sua attività, la madre “cucina tutto il giorno” e si occupa del bambino piccolo. “Il tempo non passa mai – dice Ali – e pensi di più al momento in cui potrai mangiare, sentendo il profumo del cibo nell’aria”.

La Chebakya il dolce a base di farina, sesamo, miele, finocchio e cannella “scoperchiata” per la foto dalla mamma di Ali
“Invece quando esci, vedi gli amici e fai la tua vita normale, anche se c’è chi mangia davanti a te, non fa niente perché hai tante distrazioni e le ore passano più in fretta. Per fortuna – confessa il ragazzo – io mio ero allenato prima: ho provato a digiunare due volte alla settimana già dall’inizio di aprile per non soffrire la fame tutta in una volta. Ora non mangio e non bevo tanto nemmeno quando è consentito, la mattina e la sera perché ho provato che poi si sta male ad andare a dormire con la pancia troppo piena”.

La lettura del Corano in famiglia

Poi ci sono le preghiere, cinque volte al giorno e dopo l’Iftar il pasto della sera, quando il padre di Alì legge il Corano “e tutti lo stiamo ad ascoltare: non è obbligatorio, ma noi abbiamo questa abitudine che ci fa sentire più uniti”. Quello che fa davvero la differenza per Ali è il fatto di non potere andare alla Grande Moschea il venerdì sera a pregare con tutta la famiglia. “Mi mancherà soprattutto la festa dello Eid al-Fitr che celebra la fine del ramadan la notte dell’interruzione del digiuno, quando ci sono le fontane illuminate e si rimane nella moschea tutta la notte per pregare insieme ad amici e parenti. In quell’occasione si riunisce tutta la mia grande famiglia, noi e i fratelli di mio padre e di mia madre con le loro famiglie che vivono tutti in Italia da molti anni. È un’occasione anche per incontrare amici che non vedo molto spesso, un giorno unico, atteso per tutto l’anno che stavolta purtroppo passeremo in casa”.

La grande moschea di Roma deserta ai tempi del lockdown

Tutti dovrebbero provare una volta nella vita il digiuno

Sottolineate le difficoltà del momento, però Ali consiglia a tutti, anche a chi non è musulmano, di cimentarsi con una sfida che secondo lui fa anche bene alla salute. “Per capire cosa significhi fare il ramadan bisogna viverlo di persona”. E racconta che l’anno scorso “sono riuscito ad arrivare fino in fondo alla staffetta organizzata da Sport senza Frontiere allo Stadio dei Marmi, ho fatto un tempo ottimo, nonostante fossi a digiuno dall’alba. Al primo giro mi sentivo benissimo, al secondo abbastanza, al terzo non ce la facevo più, ma poi sono riuscito ad arrivare tra i primi”.

Ramadan in comunità: il distanziamento muta le tradizioni

Anche per Yacouba e Mohamed, due ragazzi maliani arrivati in Italia come minori non accompagnati, la quarantena rende tutto più complicato. Yacouba vive in una struttura ex Sprar con altri 80 ragazzi e dove abita Mohamed sono in 51. Difficile mantenere il distanziamento sociale e pregare insieme, impossibile ritrovarsi a tavola per l’Iftar, il pasto che interrompe il digiuno alla sera. “Alla fine – dice Yacouba – la maggior parte del tempo la passi a letto a dormire, anche perché la notte, dopo aver mangiato, si prega, e così diventa sempre molto tardi”.

Mohamed nella stanza dove prega
Il catering della struttura di accoglienza fa cucina tradizionale, dunque non ci sono i piatti tipici del menù musulmano, ma solo datteri e tè caldo per l’interruzione del digiuno. Insieme alla cena viene allestita anche la colazione per chi osserva il ramadan e dovrà mangiare di nuovo prima dell’alba. Ma tutti i pasti devono essere consumati il più possibile in “solitudine” per evitare la possibilità di contagi. “Prima uscivo per andare a comprare del cibo africano al mercato pakistano che si trova nei pressi del mio centro – racconta Yacouba – ma adesso è molto più difficile, quando esci ci sono i controlli della polizia per il coronavirus”.
Yacouba con il vestito che lo fa sembrare un “principe africano” quando va in moschea a pregare

La preghiera “a distanza”

Mohamed, che ha uno spiccato talento da fumettista e frequenta la scuola del fumetto, non riesce a concludere granché in questo periodo di “sospensione”: “non ho nessuna voglia di disegnare – dice – recito le  preghiere da solo nella mia stanza per stare a distanza dagli altri e qualche volta per passare il tempo gioco a calcetto. Ma siamo al massimo in tre per non stare troppo vicini”.  Anche per i due ragazzi del Mali la preghiera del venerdì in moschea è la rinuncia più importante, perché manca la dimensione collettiva del precetto, osservato all’unisono in tutto il mondo da quasi due miliardi di persone, quando per l’occasione Yacouba indossava l’abito tradizionale azzurro che lo faceva sembrare un vero “principe africano”.

Francesca Cusumano(5 maggio 2020)

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