LGBTQ+ stranieri in Italia: racconti di vite e culture

Comunità LGBTQ+, storie di migranti
foto di Roberta Persichino

Giugno è il mese del Pride, quest’anno più che mai. Il recente suicidio in Canada dell’attivista LGBTQ+ egiziana Sarah Hijazi, arrestata nel 2017 e torturata in carcere per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto della band libanese Mashrou’ Leila al Cairo, ma anche la storica decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti sull’inammissibilità dei licenziamenti legati all’orientamento sessuale del lavoratore, pongono di nuovo agli onori della cronaca il tema dei diritti della comunità LGBTQ+ in tutto il mondo. Nel nostro paese il prossimo 25 giugno verrà discusso in Parlamento il ddl contro l’omotransfobia. Uno dei suoi relatori, il deputato Zan, nelle ultime settimane è stato fatto oggetto di una dura campagna social intimidatoria, proprio di stampo omofobo.Secondo il rapporto 2020 di ILGA-Europe, che monitora lo stato dei diritti degli omosessuali e transessuali in Europa e in altri paesi dell’Asia Centrale, circa la metà dei paesi europei non ha fatto progressi nell’ultimo anno nel campo dei diritti LGBTQ+, con l’Italia che si attesta al 35° posto, tra i 49 paesi presi in esame, per rispetto dei diritti della comunità arcobaleno.Una situazione che si riflette anche sulla componente straniera della comunità LGBTQ+ in Italia: il Decreto Ministeriale dello scorso 22 ottobre che disciplina la lista di 13 paesi di origine considerati sicuri nella procedura di analisi della domanda di asilo, sottolinea il rapporto, include anche Algeria, Marocco, Tunisia, Ghana e Senegal, tutti paesi in cui l’omosessualità è ancora un reato.

La comunità straniera LGBTQ+ in Italia

La condizione degli omosessuali stranieri in Italia dipende da molteplici fattori, legati soprattutto al portato culturale dei paesi di origine, unito a caratteristiche più individuali, come coraggio, intraprendenza e condizioni socioculturali. “La maggiore differenza tra un omosessuale/transessuale italiano o di origine straniera riguarda l’esperienza collettiva, il clima politico e sociale in cui si è trovato a vivere e a crescere” spiega Manuela Macario, Responsabile dell’area ‘Politiche per il lavoro, Marginalità e Migranti’ della Segreteria Nazionale di Arcigay. “Qui in Italia, come in Europa d’altro canto, negli ultimi 40 anni abbiamo fatto molti passi da gigante, abbiamo lottato per affermare i diritti della comunità LGBTQ+. Certo, c’è ancora molto da fare: la proposta di legge contro l’omotransfobia è rimasta per anni bloccata in Parlamento, abbiamo assistito a congressi della famiglia e numerose aggressioni di stampo omofobo, ma in generale la nostra storia è andata in un’altra direzione. Questo non lo dobbiamo dare per scontato mai. Molti stranieri LGBTQ+ presenti nel nostro paese, invece, si trovano in una situazione di limbo, in cui la libertà di vivere ed esporre il proprio orientamento sessuale viene improvvisamente messa da parte quando si tratta di intrattenere rapporti con i membri della comunità di origine. Subentra la vergogna, talvolta ci si sente colpevoli nei confronti della famiglia e della collettività in generale”.

Comunità LGBTQ+ in Italia, foto di Giada Stallone – pride Roma 2019

In molte parti del mondo l’omosessualità e la transessualità vengono punite attraverso l’espressione di una condanna sociale, più o meno pressante, come avviene per esempio nei paesi dell’Est. In altri, invece, molti dei quali di impronta islamica, l’omosessualità è considerata un reato, punibile persino con la pena di morte. “In genere i migranti che arrivano da queste realtà presentano un grado di introiezione delle norme sociali molto alto, per cui anche una volta fuggiti dichiarano il proprio orientamento sessuale soltanto con estrema difficoltà. Un caso limite è rappresentato dalle donne lesbiche che provengono da paesi di forte impronta islamica: rifiutano di esporre il proprio orientamento sessuale persino in sede di colloquio per la domanda di asilo, anche se costrette a fuggire proprio a causa della propria omosessualità. In quanto donne, in quanto migranti e in quanto lesbiche presentano una storia di discriminazioni estremamente grave, non circoscritta al paese di origine ma che coinvolge anche i paesi di transito attraversati durante il viaggio e purtroppo talvolta anche l’Italia. Una ragazza del Camerun, per esempio, fuggita dal proprio paese perché lesbica, è stata incarcerata e violentata durante il viaggio. Una volta arrivata in Italia ha subito le angherie non soltanto da parte delle sue compagne di stanza nel centro di accoglienza, ma anche di un’operatrice sociale lì impiegata. Anche l’Italia, in questo caso come in altri, ha giocato la parte del carnefice”.Arcigay, a partire dal 2017, ha attivato il programma Migranet, dedicato all’assistenza e all’analisi della specifica condizione dei richiedenti asilo omosessuali o transgender. In occasione della settimana contro il razzismo promossa da UNAR lo scorso marzo, ha lanciato la campagna Ohana per sensibilizzare l’opinione pubblica affinché tutti – italiani e stranieri, omosessuali o no – si possano sentire parte attiva di una stessa comunità.

Ri-costruirsi, la storia di Rawah

Rawah ha 25 anni, una laurea in finanza e vive in Italia da un anno e mezzo con un permesso di asilo politico. Le motivazioni che l’hanno spinta a lasciare le sua terra sono state l’omosessualità e l’ateismo, due argomenti particolarmente dibattuti nel suo paese d’origine perché entrambi sanzionabili dalla legge. Per i membri della comunità LGBTQ+ è riservato un trattamento particolare che può andare dall’arresto alla pena di morte. Pertanto, non esistono realtà associative e le relazioni non eterosessuali possono sopravvivere solo nella totale clandestinità. “Non sono mai stata scoperta dalla polizia perché penso di essere stata brava a nascondermi” racconta Rawah. “La mia famiglia non sa nulla, sono stata fortunata a conoscere degli amici che mi hanno accettata”. Parlare di omosessualità nel suo paese è rischioso per via di un sistema di sorveglianza anche telematico, tanto che ha mantenuto pochi contatti con la propria comunità. Nonostante l’estrema segretezza che tutela le relazioni omosessuali, Rawah ricorda di episodi che hanno coinvolto direttamente suoi conoscenti che “sono spariti per un po’. Solo dopo abbiamo scoperto che esiste un tipo di polizia che crea account falsi per scovare persone omosessuali”.Una volta in Italia Rawah è entrata in contatto la realtà Arcigay grazie alla quale si sente tutelata e libera di vivere il proprio orientamento sessuale. “Ho conosciuto Arcigay attraverso la loro pagina Facebook e sono stati molto gentili e accoglienti”.  Rispetto alle leggi italiane sull’omosessualità non si sente ferrata ma si è ripromessa di informarsi di più; attualmente è concentrata sulla ri-costruzione della propria vita e, nonostante abbia vissuto anche episodi razzisti, ha preferito non rivolgersi alle autorità. “Mi sento sicura in Italia anche se, da donna, c’è sempre il timore di camminare sola per strada. Sto cercando di rendere la mia vita qui più sicura e una volta che avrò trovato un lavoro potrò costruire il mio piccolo spazio vitale”. A proposito di un eventuale ritorno nel proprio paese, Rawah non si sente propensa a farlo perché “quel posto mi ha dato già tutto quello che poteva darmi”.

Dalla Cina all’Italia, la storia di David

Se vivere il proprio orientamento sessuale sembra sistematicamente ostacolato in alcune parti del mondo, in Cina l’aria che si respira non è da meno. Jiarui, per gli amici David, 26enne cinese è in Italia per motivi di studio e per un amore spassionato per la lingua, la cultura e la bellezza delle città italiane. “Ho voluto spostarmi dalla Cina non tanto per la mia omosessualità quanto per una questione politica, in particolare per le restrizioni sulla libertà di espressione. Ho deciso che avrei voluto vivere ovunque ma non in Cina”. Eppure, David aggiusta il tiro perché “tutti i miei colleghi e amici sanno della mia omosessualità ma non la mia famiglia. Questo è stato uno tra i motivi per cui ho lasciato il mio paese d’origine. Non tanto per come l’omosessualità viene considerata in Cina quanto per quello che pensa nel merito la mia famiglia”. L’omosessualità non viene ufficialmente punita ma i mezzi di informazione non affrontano mai l’argomento così come non esistono pride dedicati, seppur sopravvivano bar e locali gay friendly. “Se fai parte della comunità LGBTQ+ in Cina la regola è ‘non chiedere, non dire’. Cioè, se non ti esponi particolarmente nessuno può disturbarti” racconta David. “Da quando sono arrivato in Italia ho stretto amicizia con altri cinesi, molti dei quali frequentano la mia stessa università e mi sono inserito in un ambiente particolarmente tollerante. Il problema della mia comunità è che è molto chiusa, infatti un cinese tende a frequentare solo persone della sua stessa nazionalità”.Un aspetto, questo, che David non si sente di criticare ma dal quale preferisce discostarsi. “Fortunatamente non ho mai subito discriminazioni omofobe o razziste. Secondo me l’Italia, come tanti altri paesi, ha i propri problemi e per uno che come me viene da un background totalmente diverso questo paese appare progressista per quanto riguarda i diritti degli omosessuali: non mi sono mai sentito così libero come qui in Italia”. La libertà della quale parla si concretizza nel semplice gesto di prendere il proprio ragazzo per mano, per strada, senza il timore di eventuali conseguenze. “Certo, magari sono anche fortunato perché Milano, la città nella quale vivo, è grande e più tollerante rispetto ad altre realtà. Arcigay e le altre associazioni mi hanno offerto la possibilità di partecipare ad eventi e manifestazioni”. Un’opportunità non da poco, un segnale di “grande apertura mentale che ho decisamente apprezzato”.

Silvia ProiettiGiada Stallone(17 giugno 2020)

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