Il mondo dell’agricoltura sta assumendo oggi una nuova centralità nelle sfide per il futuro. La pandemia ci pone l’urgenza di ripensare l’intera filiera alimentare per trasformare i sistemi in cui il cibo viene prodotto, distribuito, consumato e per rendere le persone socialmente più fragili, come gli immigrati, soggetti attivi di tali trasformazioni, coinvolgendo il Terzo Settore.
Uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 – a lungo inattuati – è il Goal 2 che prevede: sicurezza alimentare, migliore nutrizione, agricoltura sostenibile. Oggi il Recovery plan è lo strumento che dovrebbe rendere possibile l’avvicinamento a quell’obiettivo e attribuire un ruolo importante al Terzo Settore.
Tra le realtà del Terzo Settore che da tempo cercano di coniugare sviluppo, rispetto dell’ecosistema e solidarietà c’è ASeS – Agricoltori Solidarietà e Sviluppo, Ong di riferimento di CIA – Confederazione Italiana Agricoltori, che opera in Italia, Europa e Sud del mondo.
ASeS nasce negli anni ’70, dall’iniziativa di attivisti italiani collegati ai campesinos del Paragay, per costituirsi, negli anni ’90, come Ong nella cooperazione internazionale e realizzare successivamente progetti in varie regioni italiane. Nel 2017 cambia l’acronimo da ‘Associazione’ in Agricoltori Solidarietà e Sviluppo.
“Le finalità della Ong – spiega la presidente Cinzia Pagni – sono quelle di contribuire allo sviluppo delle comunità rurali nelle aree più povere del mondo e promuovere l’inclusione sociale delle fasce più deboli – in particolare persone con disabilità e migranti – grazie alla pratica di un’agricoltura rispettosa dell’ecosistema e della persona”.
Cosa si intende per agricoltura sociale e quali progetti sono destinati anche ai migranti?
“L’agricoltura sociale comprende quelle attività che utilizzano le risorse agricole per azioni e servizi a favore delle persone svantaggiate e a rischio di esclusione. Mettendo insieme imprenditore agricolo e strutture come le cooperative sociali si realizzano percorsi di formazione e inserimento lavorativo; si tratta di un’agricoltura polifunzionale in cui la produzione è associata ad altre attività: agriturismo, stages formativi, fattorie didattiche e altro.
Per quanto riguarda i progetti destinati a immigrati noi abbiamo lavorato molto e bene con gli SPRAR e, da quando sono stati smantellati e con essi le buone pratiche di formazione e inserimento, tutto è diventato più difficile. Tuttavia uno dei progetti che stiamo realizzando è “100 passi”, nel Milanese. Con Cascina Contina, una cooperativa che accoglie soggetti fragili e pratica agroecologia, abbiamo previsto percorsi di formazione dei ragazzi dei CAS in vari ambiti: educazione alla cittadinanza, sicurezza, conoscenza del patrimonio naturale del territorio – ovviamente diverso da quello dei loro Paesi di provenienza –, orientamento al lavoro e poi accompagnamento all’inserimento lavorativo.
Tutti i prodotti agricoli vengono valorizzati con dei marchi che rivelano il carattere etico e sostenibile della loro produzione. Con la pandemia, però, il progetto è in grande difficoltà”.
Come operate nell’ambito della cooperazione internazionale?
“Abbiamo sedi secondarie in Paraguay, Mozambico e Senegal; abbiamo operato in Libano e dallo scorso anno anche in Albania e Marocco. Nel corso degli anni – la nostra storia ha più di 40 anni – il raggio d’azione del nostro operato si è ampliato all’Italia: ciò che accomuna la cooperazione internazionale all’agricoltura sociale nel nostro Paese è l’obiettivo di coniugare sviluppo e inclusione nelle comunità locali, con la stessa visione che mette al centro le persone più fragili.
Uno dei progetti di cooperazione in corso è il Centro di Salute per bambini malnutriti, figli di madri sieropositive, in Mozambico, vicino a Maputo: dopo percorsi di formazione nel campo e di educazione alimentare con nutrizionisti, si finalizza l’agricoltura locale alla fornitura di prodotti destinati a nutrire gli ospiti del centro e le loro famiglie. Si tratta di un modello di autosufficienza alimentare in un’ottica circolare: alle madri dei bambini dimessi vengono dati dei semi, una coppia di galline, una coppia di capre per consentire loro di riprodurli, con l’obbligo di riportare al Centro i semi che si sono riprodotti o un capretto.
È un modello di rinascita dal basso che crea un circolo virtuoso e può indicare la strada del futuro”.
Agricoltura sociale, agroecologia, rispetto dell’ambiente: come interagiscono fra loro e con la dignità del lavoro?
“Chi fa agricoltura sociale in genere pratica anche agroecologia, che non significa però tout court biologica, bensì rispettosa dell’ecosistema. L’eticità nel lavoro dovrebbe prescindere da agricoltura tradizionale, piccola o grande, biologica o integrata; ma nella realtà vediamo gli effetti delle distorsioni di mercato o valoriali che determinano sfruttamento e fenomeni come il caporalato. Noi abbiamo partecipato alle campagne Ero straniero e contro il caporalato, collaboriamo con Libera, insomma siamo impegnati nel contrasto a questi fenomeni e riscontriamo che oggi l’abbassamento dei livelli economici procede di pari passo con l’abbassamento del livello delle tutele sociali.
Guardando al futuro, bisogna scommettere sull’autosufficienza alimentare e l’economia circolare delle comunità locali, riconoscerle come valore e rafforzarle, investendo sulle loro potenzialità di sviluppo. Per esempio, nell’ottica del contrasto alla povertà energetica – uno degli obiettivi dell’Agenda 2030, ndr – si possono creare comunità energetiche che producono energia da fonti alternative, la rivendono per poi investire nell’utile sociale”.
Che fate nel campo dell’educazione al rispetto del cibo e dell’ambiente e in che modo il prodotto etico di qualità può affermarsi sul mercato dominato dalla grande distribuzione?
“Il 2021 per ASeS sarà un anno di grandi investimenti nel campo dell’educazione alimentare sia nelle scuole italiane sia nei Paesi esteri. In realtà noi già con le fattorie didattiche facciamo formazione, ma con la pandemia la riflessione si è resa più profonda e investe il piano dei valori: a cosa dare priorità, cosa e in base a quale criterio scegliere. Bisogna riconoscere il valore del cibo, rivitalizzare le tradizioni locali, tutelare la biodiversità, questo sia da noi che altrove.
Per vincere la logica della grande distribuzione e del basso costo serve una politica capace di fare scelte chiare in una visione di futuro. Ma è fondamentale anche l’educazione: il consumatore deve essere consapevole che nel momento dell’acquisto di un prodotto sta compiendo un atto politico e etico; se compriamo prodotti sottocosto siamo corresponsabili di riduzione della qualità, danno all’ambiente e sfruttamento del lavoro”.
Luciana Scarcia
(3 febbraio 2021)
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