Ius Culturae: identità e appartenenza delle II generazioni

Manifestazione per il diritto di cittadinanza a Roma
Manifestazione per il diritto di cittadinanza. Foto GMA per Piuculture

Su un importante quotidiano nazionale nei giorni scorsi un articolo ha sollevato il tema della identità e dello Ius Culturae, sostenendo la tesi che l’appartenenza alla cultura d’origine (lingua, tradizioni, famiglia) sia più forte della condivisione a scuola dei valori e della cultura del paese in cui i figli di stranieri vivono. Da qui il rifiuto di considerarli cittadini italiani.
Ci chiediamo se l’autore dell’articolo abbia una qualche conoscenza della realtà dei giovani di seconda generazione e se la sua idea di identità rappresenti il mondo d’oggi o non sia piuttosto asservita a una posizione politica anti-immigrazione. Ci rivolgiamo, quindi, a chi quella realtà la conosce e la vive, gli insegnanti, per chiedere cosa ne pensi:
Sulla base della sua esperienza professionale e umana in classi frequentate anche da alunni di seconda generazione, qual è la sua opinione sull’identità culturale di questi giovani e sullo Ius Culturae?

Socialità e identità. Confronto con la scuola francese

Alessandra Mauro – Docente Scuola Primaria, Scuola Europea di Bruxelles
“Per dei bambini l’impronta della famiglia è ovviamente forte e le famiglie non sono tutte uguali: ci sono gruppi pienamente integrati, che condividono con gli italiani abitudini alimentari, gusti nel vestiario, modi di trascorrere il tempo libero, e ci sono gruppi che tendono a stare più di lato. Ma da tutti viene riconosciuta alla scuola un’importanza fondamentale. I bambini vengono volentieri e condividono con i loro compagni anche parte del tempo fuori dell’edificio scolastico.
La frequenza scolastica è, secondo me, senz’altro una condizione sufficiente per l’approvazione dello Ius Culturae, perché chi fa l’intero percorso nelle nostre scuole non solo acquisisce conoscenze e contenuti culturali, ma sperimenta anche abitudini, stili di vita, immaginario comuni. Ed è la socialità a contribuire in modo determinante alla costruzione dell’identità, non solo e non tanto i contenuti culturali appresi. Questo non significa negare le specificità delle diverse culture, anzi il confronto con le diversità è un arricchimento reciproco. Non mi è mai successo, per esempio, che qualche alunno di origine straniera rifiutasse una proposta didattica perché incompatibile con la religione o la cultura della sua famiglia.
Detto questo, le differenze esistono, gli alunni stranieri non sono un’entità indistinta. Per esempio, nella mia esperienza gli alunni filippini sono bravissimi, soprattutto le bambine, spesso molto più dei loro compagni italiani, persino nella lingua; oppure, non mi risulta che i bambini cinesi siano chiusi perché sentono più forte l’appartenenza alla loro comunità. Penso che ad avere un peso importante nella riuscita scolastica sia non già il gruppo o la cultura a cui appartengono, quanto piuttosto le condizioni socio-economiche della famiglia, esattamente come per gli alunni italiani: una famiglia integrata, che non debba vivere la precarietà lavorativa o abitativa, è indubbiamente un fattore di serenità per la crescita del bambino.
Nella scuola italiana c’è una predisposizione all’accoglienza, anche se non è accompagnata da strutture e risorse adeguate. In Francia, invece – dove ho insegnato negli anni ’90 in una scuola di periferia, frequentata da tanti figli di immigrati – la legge riconosce la cittadinanza ai ragazzi di seconda generazione, ma si tratta di un riconoscimento di uguaglianza formale, che non corrisponde a una reale integrazione delle famiglie. L’approccio culturale è molto rigido, non prevede alcuna apertura o curiosità verso la cultura del Paese di provenienza. Così accade che in classe siano tutti francesi, poi però vengono le mamme vestite con gli abiti africani, o con i figli piccoli legati al corpo con uno scialle. Parlerei di ‘cittadinanza sdoppiata’. E la conseguenza è che le banlieus sono delle polveriere.
Per tornare allo Ius Culturae, non riesco proprio a vedere nella sua approvazione alcun rischio di perdita; lo considero semplicemente una codificazione della realtà esistente e già evidente. Piuttosto sposterei l’attenzione sui processi reali di integrazione, alla cui base ci deve essere la dignità del lavoro”.

 

Scuola: luogo di condivisione, ma deve fare di più per l’integrazione

Fiorenza Foà – Docente Istituto Alberghiero Statale Amerigo Vespucci, Roma
“Gli alunni di origine straniera si sentono e vogliono essere considerati uguali ai compagni italiani. Infatti quando chiedi loro, pur con l’intenzione di valorizzare le diversità, da dove vengono o notizie sul Paese d’origine dei genitori, ti accorgi che li stai mettendo in imbarazzo. La scuola per loro ha un valore enorme, ci tengono tantissimo. Le ore di lezione sono sudatissime e contano molto di più dell’appartenenza etnica e delle ore trascorse in famiglia. Questo direi a chi si oppone allo Ius Culturae.
Poi, certo, hanno più difficoltà dei loro coetanei italiani a causa della lingua, e infatti vanno incontro a bocciature più degli altri, ma ciò rimanda alle carenze della scuola che, per esempio, non organizza corsi di L2 e non ha strategie per l’integrazione, per cui ricorre all’escamotage di collocarli nella categoria dei BES (Bisogni Educativi Speciali) come gli alunni con particolari problemi cognitivi.
Però io ho anche una classe con prevalenza di alunni stranieri che è davvero eccezionale: abbiamo costruito il mappamondo della classe, con Filippine, Etiopia, Capoverde, Bangla Desh e altri Paesi, l’Italia risultava piccolissima. Le più brave sono le alunne filippine.
L’importanza della scuola vale anche per le famiglie, indipendentemente dalle condizioni economiche. Questo è stato un anno particolarmente difficile e un alunno bengalese ha smesso di frequentare. È venuta da me la madre, che parlava malissimo l’italiano, per chiedermi di fare qualcosa per recuperare il figlio alla scuola. Questo dimostra che la famiglia assegna alla scuola un ruolo fondamentale, una strada per il riconoscimento sociale.
È necessario che l’istituzione scuola sia più consapevole di questo ruolo determinante per la coesione sociale e che adotti strategie opportune. Questa necessità ha, tra l’altro, anche ragioni di mero interesse, visto che, in conseguenza della denatalità, in Italia sono gli alunni stranieri a sostenere le iscrizioni e quindi anche l’occupazione del personale scolastico”.

L’identità si costruisce nelle relazioni

Teodoro Frascaro – Docente Istituto d’Istruzione Superiore Statale Piaget-Diaz
“Sullo Ius Culturae direi: ‘perché no?’ I giovani a scuola e tra di loro sono tutti uguali, con gli stessi gusti e difficoltà. Il vivere insieme ai coetanei permette loro di avvicinarsi e condividere la cultura in modo più diretto ed efficace che attraverso l’insegnamento del docente: per loro la vera esperienza culturale sta nel modo in cui ciò che il docente trasmette viene condiviso dai compagni; la sintonia fra di loro rende più facile l’accesso alle parole dell’insegnante. La volontà che gli alunni stranieri hanno di conoscere la cultura italiana li rende motivati e partecipi.
Il compito del docente è di promuovere il senso critico attraverso i contenuti. Consapevole di questo, ritengo che la legge sullo Ius Culturae sia sicuramente una buona cosa, ma non può trattarsi solo di un atto formale: nessuna legge da sola può incidere sulle coscienze, bensì deve essere accompagnata da processi reali di crescita culturale basata sul senso critico; processi guidati da persone — in questo caso gli insegnanti — capaci e preparate. E questo rimanda all’importanza che la società riconosce a scuola e cultura.
Nel rapporto diretto con i ragazzi si impara a conoscerli, anche nelle loro potenzialità. Un esempio: avevo chiesto agli alunni di attribuirsi un voto su un determinato compito, ma erano rimasti incerti, non capivano cosa dovevano fare; un ragazzo del Ghana, generalmente silenzioso, disse: ‘quindi lei ci sta chiedendo un’autovalutazione?’. Aveva capito perfettamente. Con ciò voglio dire che spesso scopriamo che questi ragazzi sono molto di più di quello che pensiamo o vogliamo trasmettere.
Per quanto riguarda l’identità culturale, questa non è iscritta nel DNA degli individui, è fatta di relazioni ed è in continuo divenire, come dimostra la storia”.

Gli alunni stranieri nella scuola italiana sono il 10% del totale degli alunni; il 64,5% sono nati in Italia (NdR).
Qui l’articolo citato all’inizio.

Luciana Scarcia
(25 maggio 2021)

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