“Dalla strada alla casa”, è il rapporto presentato sabato 5 febbraio da “Nonna Roma”.
“Nonna Roma” è un’associazione di volontari, sorta nel 2017 all’interno di Sparwasser, che si occupa di problemi sociali, cercando di reinserire le persone nella società.
Il rapporto, il primo di Nonna Roma, affronta il tema dei senza dimora a Roma. Nel dossier si analizza il fenomeno, si sollevano critiche ad alcune norme vigenti – che limitano l’accesso ai diritti dei senza dimora – e di proporre soluzioni da presentare ai soggetti istituzionali.
Nel centro di via Vittorio Amedeo II che ospita 13 persone, ed è stato aperto a dicembre 2021, in convenzione con il I municipio di Roma, Sara Fiordaliso coautrice del dossier entra nel merito delle problematiche che riguardano i senza fissa dimora.
In questi ultimi mesi si legge sempre più spesso sui giornali della situazione emergenziale dei senza dimora. un problema accentuato dalla pandemia?
I senza dimora sono molti di più di quelli che noi possiamo pensare, a Roma si stima siano 16 mila persone, tra strade, dormitori e insediamenti informali. Con quest’ultimo s’intende l’utilizzo di edifici abbandonati in zone periferiche, nelle quali persone che non hanno alternativa vivono in condizioni indegne, senza alcun tipo di servizio. Il fenomeno è rilevante da anni, non è una cosa di oggi. Le prime rivelazioni invece risalgono al 2011. Sicuramente la congiuntura economica particolare, l’impatto del Covid e la mancanza dei centri di accoglienza adeguati, anche per i migranti, ha portato maggiore sofferenza in un sistema già di per sé inadeguato.
Nel rapporto si fa riferimento, in chiave critica, all’ideologia del decoro. Ideologia che ha ispirato il regolamento di polizia urbana del 2019 del Comune di Roma e, in precedenza, la stessa normativa a livello nazione risalente al 2017. Qual è l’assunto di tale ideologia?
Tende a rimuovere il marginale, colpevolizzando la persona in difficoltà. L’approccio non è quello di cercare di intervenire per risolvere l’esigenza ma è quello di spostare le persone in strada, in posti dove possano diventare invisibili e non dare più fastidio. Questo perché posti come la stazione Termini devono essere belli, in quanto sono collegati all’economia. Ciò che conta è la percezione della sicurezza degli abitanti. É infatti dimostrato che, al di là del numero di reati, quello che conta spesso è la percezione della sicurezza, non l’effettiva sicurezza.
Il regolamento di polizia urbana ha perciò l’intento di preservare il decoro della città. Il decreto Lupi-Renzi del 2014, di cui si chiede l’abrogazione nel dossier, a quale aspetto del disagio abitativo si riferisce?
Il decreto Lupi-Renzi del 2014 va a colpire un’altra fascia di popolazione interessata dal disagio abitativo forte, che è quella delle occupazioni. Secondo questo articolo gli occupanti, ma anche i senza dimora in senso stretto, non possono avere la residenza e l’allaccio delle utenze basilari, anche se queste persone sono in condizione di necessità. Di fatto impedisce a queste persone di poter godere di alcuni diritti fondamentali. Una delle nostre proposte è portare all’attenzione del comune la necessità di deroga di questo articolo, visto l’impatto che ha sulla vita delle singole persone.
A Termini, e non solo, vivono molte persone che non hanno residenza. Nel report si evidenzia come per ottenerla si debbano recare presso i servizi sociali e attendere dai sei mesi a un anno di tempo. Ci può spiegare, un po’ più nel dettaglio, il funzionamento di questo sistema?
Chi non può ottenere una residenza presso un alloggio deve per forza ricorrere alla residenza fittizia. Prima il sistema era diverso, consentiva anche alle associazioni del settore di attivarsi e di permettere l’ottenimento della residenza in tempi brevi. Poi c’è stato l’intervento della Raggi che ha internalizzato il processo. Adesso, per ottenere la residenza, c’è un iter da fare all’interno del municipio, tramite colloqui con gli assistenti sociali. Il problema è che i tempi sono lunghissimi e le interpretazioni sono le più varie. Bisognerebbe in primis ampliare il numero delle persone addette a questo tipo di attività. E poi, in maniera più definitiva, superare il regolamento e prevedere un altro modello, diverso da questo che è troppo farraginoso e per natura soggetto a lungaggini.
In questo periodo non si contano i Daspo (divieti di avvicinamento) comminati presso la stazione Termini per allontanare i clochard. Qual è l’obiettivo di questi divieti e cosa si dice nel report a tal proposito?
Una parte del rapporto si concentra sul Daspo urbano che dà una sanzione amministrativa a persone nullatenenti e poi sugli ordini di allontanamento a persone che non hanno un altro luogo dove stare. Perciò semplicemente comporta la marginalizzazione di queste persone. Ci sono persone che durante il lockdown si sono viste comminare 180/190 mini-Daspo. É evidente che alla base c’è una volontà di pulire i posti e di allontanare la marginalità dalle zone centrali.
Negli ultimi mesi è stata anche gettata dell’acqua, con le idropulitrici, sui marciapiedi dei Piazza Cinquecento per allontanare i senza dimora. Questa è una delle tante misure adottate da Grandi Stazioni per allontanare i senzatetto. Qual è il principio che si cela dietro queste scelte?
Il principio più o meno è lo stesso: i senza dimora vengono allontanati dagli ingressi della Stazione e spostati dove non si vedono, ad esempio nei pressi del tunnel di Via Giolitti. Quello che fa Grandi Stazioni è una sorta di intervento a zone. Il problema è che si tratta di persone che hanno necessità di intervento. Le situazioni sono le più disparate, dai migranti che hanno difficoltà ad ottenere il permesso di soggiorno, ai richiedenti asilo che non sanno dove stare, ai titolari di protezione che non sono nel circuito di accoglienza, fino ad arrivare a persone con disagio fisico e/o mentale. Bisogna anche tenere conto del fatto che più stai in strada, più la questione si cronicizza. Queste norme che si accaniscono contro persone che hanno un bisogno urgente, in quanto stare per strada significa morire. Non sono questioni che possiamo rimandare a domani, bisogna parlarne oggi. Focalizzare l’attenzione sulla pulizia, e non sul bisogno, è allarmante.
In “Dalla strada alla casa” sono elencate le Best Practises. Si citano i casi di Lisbona, di Torino e di Bologna. Ci può dire di cosa si tratta e quali sono gli aspetti fondamentali di queste “buone pratiche”?
Gli aspetti fondamentali sono due:
1) Housing First. Il superamento del sistema scala, che si è dimostrato poco efficace. Questo sistema a scala, che funziona a gradi, presuppone che un senza dimora passi dall’H4 (centro diurno), dal dormitorio, per poi finire in appartamento. La maggior parte delle persone non arrivano mai a questo ultimo step. La condizione di disagio abitativo non termina mai. Il modello dell’Housing First, modello ideato in America qualche decennio fa, parte dall’assunto che la casa è fondamentale, è perciò la prima cosa che lo Stato ti deve dare. Soltanto dandoti la casa posso consentirti di cominciare a ricostruire le tue relazioni e di permetterti di cercare un lavoro. Anche in Italia abbiamo alcuni esempi di Housing First che hanno effetti promettenti.
2) Valorizzazione del patrimonio abitativo già esistente. Mettere a disposizione della collettività sia il patrimonio immobiliare pubblico – del Comune o di altri enti – e anche cercare di prendere in carico edifici presi in carico dai privato. I dati del 2011 ci dicono che abbiamo 7 milioni di case sfitte in Italia (dati Istat), 200.000 a Roma di privati. Il patrimonio abitativo del comune di Roma o di altri enti è immenso.
Nel Report si fanno 5 proposte per tentare di risolvere i problemi di disagio abitativo. Quali sono queste proposte?
Le cinque proposte sono:
1) La prima proposta è quella di avviare dei censimenti frequenti. Affiancare il censimento tramite accesso a dormitori e mense – che è la metodologia tradizionale – a quello sperimentale, che comporta il coinvolgimento dell’unità di strada. Questo perché ci sono poche statistiche, fatte soprattutto dall’Istat e dalla Caritas, che portano a sottostimare il fenomeno perché non considerano i casi di disagio abitativo estremo, come ad esempio le insediamenti informali. Bisognerebbe anche cercare di capire cosa c’è dietro il mero dato, ossia i fattori che hanno portato una certa persona in strada, quali sono le condizioni di vita di un senza di mora e quali sono i suoi bisogni e le sue aspettative. Soltanto in questo modo si possano immaginare politiche efficaci ai bisogni di queste persone;
2) Garantire l’accesso alla residenza fittizia;3) deroga dell’art. 5 del decreto Lupi; 4) l’abrogazione dell’attuale regolamento di polizia urbana;
5) Modello di accoglienza Permanente e Integrato. Ovvero arrivare a un tipo di accoglienza scollegato dalla logica della stagionalità, che preveda cioè centri aperti tutto l’anno. Che tenga, inoltre, conto di tutti i servizi: assistenza legale, accompagnamento lavorativo, collegamenti con servizi predisposti sia alla cura della salute fisica che mentale. Tale modello deve anche prevedere, oltre ai centri di accoglienza diurna e notturna, la creazione di comunità residenziali e l’accoglienza in appartamento. Chiediamo più centri, piccoli e diffusi all’interno del tessuto cittadino, perché utili a contrastare l’isolamento sociale.
Quando Sara finisce di parlare, Piero che ci vede mentre stiamo uscendo dal centro ci offre di cucinarci per cena del pollo eritreo. Anche lui, come tutte le altre persone che vivono nei centri di accoglienza, rischia a marzo di ritrovarsi di nuovo all’addiaccio. Questo perché i posti per i senza dimora sono aperti solo in inverno. A primavera, precisamente il 31 marzo, vengono chiusi. Per questo i volontari cercano di fare in modo che le persone senza fissa dimora trovino, prima della chiusura dei centri, almeno un lavoro, così da non rimanere a marzo di nuovo senza niente.
Marco Marasà
19/02/2022
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