“Lingua madre o figlia? Il contributo di migranti e cittadini di nuova generazione alla lingua italiana” è l’incontro organizzato dal Centro Astalli in collaborazione con la Biblioteca Europea giovedì 3 febbraio alle ore 17.00 in Via Savoia 13 a Roma. Luca Serianni, linguista e filologo, e Marino Sinibaldi, Presidente del Centro per il Libro e la Lettura, hanno dialogato con le scrittrici Asmae Dachan e Djarah Kan.
Camillo Ripamonti, presidente del centro Astalli, nel presentare e introdurre l’evento si è soffermato su “l’importanza della lingua nei processi d’integrazione e di come la conoscenza della lingua debba essere un diritto garantito a tutti i migranti che arrivano in Italia”, ammettendo nel farlo che spesso la lingua viene usata come una frontiera anziché come strumento d’integrazione. La lingua “apre a un orizzonte più ampio e allora da frontiera dovrebbe diventare un orizzonte”.
Marino Sinibaldi parla quindi di letteratura migrante e del significato di questo tema e termine ricostruendo l’evoluzione di questa narrazione e di come dapprima vi fosse sovente il doppio autore per i primi libri scritti da migranti citando come esempio “Nel mare ci sono i coccodrilli” di Fabio Geda, che racconta la storia di Enaiatollah Akbari. “Se c’è un coautore in genere è perché l’autore ha qualche difficoltà a raccontare in una lingua che non è la sua, contrariamente a quanto avviene per la letteratura anglofona e francofona”. Sinibaldi sottolinea un’ulteriore contraddizione sottoponendo un quesito a Luca Serianni: “poiché negli anni ’90 i temi migratori sembravano essere un tutt’uno, oggi come è la situazione soprattutto da un punto di vista linguistico? Cosa sta accadendo in Italia?
Serianni, linguistica e lingua madre
“Il termine integrazione è molto diverso dal concetto di assimilazione che ha una connotazione negativa e che vede in sé un annientamento della cultura originaria. La lingua è un fattore culturale neutrale, i bambini bilingui imparano facilmente due lingue senza detrimento di una sull’altra. Personalmente sono molto grato a tutti gli scrittori di origine diversa che usano la lingua italiana come strumento di comunicazione e di espressione artistica in quanto vi è una gratuità assoluta della scelta”. Inizia così il suo intervento Luca Serianni ribadendo l’opportunità che deriva dalla compresenza di diversi idiomi soprattutto per un paese come l’Italia e una lingua madre, l’italiano, che viene definita “una lingua senza impero” (ndr. Francesco Bruni), di un paese che non ha esportato anche nel periodo coloniale il proprio vocabolario e la propria cultura contrariamente a quanto hanno fatto i tedeschi con la Namibia dove il tedesco è una delle due lingue ufficiali insieme all’Afrikans. L’italiano è stato tuttavia usato da illustri personaggi stranieri con assoluta gratuità come ad esempio la Regina Elisabetta, Mozart, e questo è un po’ quello che si verifica oggi con scrittori e scrittrici di origine straniera che scelgono di raccontare con la lingua del Paese in cui vivono, l’Italia, innescando preziose conseguenze culturali.
Djarah Kan scrittrice italo-ganese
Djarah Kan, classe 1993, è una scrittrice italo-ganese, cresciuta a Castel Volturno, in una comunità difficile profondamente segnata da tensioni razziali. Il suo ultimo libro “Ladri di denti”, di cui leggiamo un estratto “Il re leone”, è una raccolta che ripercorre “storie di furti di nomi e di vita, un tentativo di spiegare l’esperienza nera e italiana dell’esproprio esistenziale in tutte le sue forme”. Djarah Kan racconta il suo rapporto con la lingua italiana: “è la mia lingua madre non ho mai avuto difficoltà a padroneggiarla a casa mia si parlava solo italiano, le mie sorelle più grandi di me hanno imparato anche altre due lingue io non ho potuto farlo. Io amo usare l’italiano e in particolar modo l’italiano che ho imparato a casa mia dagli africani, che non è un italiano scorretto ma un italiano inclusivo che vuole proiettare delle immagini. Le immagini che io utilizzo sono una terra di confine tra l’italiano degli italiani e la lingua come l’ho appresa da mia madre. A me piace molto usare le immagini e la mia scrittura è piena di questo perché quando io scrivo voglio vedere. Ho realizzato una scrittura, un modo di raccontare attraverso gli occhi”. L’autrice aggiunge che attraverso l’integrazione si costruisce un Italia potenzialmente più interessante, un modo provocatorio per porre l’accento sul fatto che persone come lei esistono e che attraverso la letteratura è possibile “spezzare gli schemi”. Kan sottolinea di essere rimasta perplessa quando recandosi in libreria ha visto la sua pubblicazione riposta nello scaffale della produzione letteraria degli stranieri e di come la bianchezza non sia una questione di epidermide ma di costrutti mentali e politici, di giochi di potere. E conclude il suo intervento con un quesito rivolto ai suoi interlocutori e alla platea interessata: “perché, se scrivo narrativa italiana, non posso stare in libreria accanto a Elena Ferrante e invece sto nello scaffalino dei migranti? “.
Asmae Dachan, giornalista e scrittrice italo-siriana
“Non c’è il mare ad Aleppo” è il terzo libro di poesie della giornalista e scrittrice italo-siriana Asmae Dachan che con versi impregnati di delicatezza tratteggia i sentimenti e le esperienze più tragiche, insegnando a chi legge che solo attraverso la memoria si può andare verso il futuro, ne leggiamo un estratto “Non ho un calamaio”.
Anche Asmae Dachan racconta il suo personale rapporto con le parole e con la lingua poiché questa racconta delle identità, mentre il modo in cui ci esprimiamo racconta chi siamo e il mondo che abbiamo dentro. Sottolinea che a volte le viene rivolta la frase: “vieni da un altro mondo” e che la sua risposta è sempre la stessa: “quale è questo mondo?”
“Il titolo dell’incontro è molto bello, io sono nata ad Ancona e ho le mie radici lì e ad Aleppo, celebro entrambe nel mio libro e mi sono sempre espressa con la lingua italiana ma ad esempio i miei amici e la famiglia di lingua araba mi chiedono sempre “quando scrivi un libro in arabo? Noi non possiamo leggerti”. L’italiano è la lingua madre con cui ho scelto di esprimermi con cui mi sentivo più a mio agio nel narrare. A casa parlavo in arabo con i miei genitori, mentre a scuola e con i miei fratelli parlavo in italiano. Ho imparato che lo scolapiatti si chiamasse così da grande poiché era un vocabolo impiegato solo nell’uso domestico, familiare e quindi si utilizzava la parola araba. Un’altra cosa che facciamo è unire le due lingue, ad esempio, un termine detto in arabo al quale aggiungere il suffisso -issimo per esprimere un superlativo”.
Asmae conclude il suo intervento ricco di passione con un pensiero che racchiude il senso stesso dell’incontro e lo afferma in riferimento al conflitto palestinese per il quale si è sentita responsabile del dover unire i suoi due mondi e raccontare perché aveva possibilità di leggere fonti e storie in lingua originale: “conoscere la lingua madre con cui si esprimono le persone in un dato luogo ti consente di comprendere come loro si sentono, come si riferiscono a ciò che avviene”.
Elisa Galli
(8 febbraio 2021)
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