Quando il 23 giugno 2016 il Regno Unito si è trovato di fronte ai risultati del referendum, con il 51,9 % dei votanti favorevoli alla Brexit, nessuno tra i contrari si aspettava veramente questo risultato, tantomeno nessuno tra i favorevoli aveva previsto la reale portata di questa “ribellione”. Il referendum non era stato preso troppo seriamente, complice anche una campagna elettorale completamente sbagliata. Oggi, che è fuori dall’Europa, il Regno Unito si trova ad affrontare una profonda crisi identitaria ed una crisi economica paragonabile solo a quella che colpì il paese alla fine degli anni settanta.
Chi aveva parentele lontane, è riuscito a procurarsi un passaporto europeo, magari irlandese. Chi, invece, si era già trasferito all’estero, osserva ora il suo paese da lontano, come Patricia, doppio passaporto inglese e portoghese, che da Londra nel 2014 si è trasferita con la famiglia a Roma per un dottorato di ricerca in storia dell’arte e dopo il referendum non è più tornata. Alla vigilia del voto elettorale, è sempre più urgente ricordarci cosa voglia dire perdere l’Europa.
Primo errore: sottovalutare le conseguenze della Brexit
“Il primo errore è stato sottovalutare il peso della Brexit, ce ne siamo accorti solo quando abbiamo perso l’Europa. Nessuno aveva idea di cosa sarebbe tecnicamente successo, a quali conseguenze effettive si andasse incontro, cosa volesse dire realmente Brexit: non c’erano informazioni, solo molta superficialità. Invece di approfondire, immaginare scenari, si facevano battute sull’Europa, nel nostro solito stile irriverente. I due schieramenti, chi era favorevole e chi contrario, erano trasversali e riunivano al proprio interno elettori sia di destra che di sinistra. Era tutto molto confuso”.
Nonostante il Regno Unito avesse sempre avuto una relazione problematica con il Vecchio Continente, prima della crisi economica del 2008 solo una piccola parte del paese parlava effettivamente di separarsi dall’Europa. “La crisi e la conseguente stagnazione dei salari ed i tagli ai servizi sociali imposti dal Governo, provocarono nella popolazione un profondo senso di abbandono. La destra al potere riuscì a trasformare questo malcontento in una politica anti europea, accusando i flussi migratori e le libere frontiere di problemi che erano invece da attribuirsi al sistema finanziario e alle debolezze pregresse e strutturali del nostro paese. David Cameron, incalzato dall’estrema destra e nel tentativo di mantenere unito il partito e la sua posizione di Primo Ministro, si arrese alla richiesta di referendum, sottovalutando la reale portata del sentimento separatista. Tant’è che, dopo l’inaspettata vittoria, non sapendo come gestire la situazione, all’indomani del voto presentò le dimissioni”. Dopo anni, è chiaro che la Brexit sia stata soprattutto un grido di ribellione contro le diseguaglianze ed i problemi interni al Paese, allora attribuiti erroneamente e cinicamente all’Europa.
Secondo errore: non parlare di ciò che ci univa
Se il primo errore è stato sottovalutare la portata di una simile decisione e non approfondire il dibattito per comprendere veramente le conseguenze economiche, sociali e politiche, il secondo errore è da attribuirsi alla gestione della campagna elettorale da parte di chi era contrario alla Brexit. “Invece di mettere l’accento in modo costruttivo sugli aspetti positivi, sui vantaggi di appartenere all’Europa, sui valori condivisi, sugli obiettivi comuni, sulla storia che ci lega, la campagna è stata impostata in modo negativo, oppositivo, contro la Brexit stessa. È stato creato l’ennesimo nemico invece di lavorare sulla speranza, sul senso di comunità e di appartenenza La campagna dei pro, al contrario, fu affidata ad un genio, Dominic Cummings, poi definito il dark prince della Brexit, un deus ex machina che conosceva bene i meccanismi di persuasione e di manipolazione e che ha saputo motivare, incoraggiare ed unire gruppi diversi di persone, usando slogan positivi (“take back control”) che agivano sulla nostalgia, sulla perduta grandiosità dell’Impero Britannico e sulla necessità di mantenere la propria sovranità”. Anche gli organi di informazione contribuirono al risultato, troppo spaventati di perdere i finanziamenti. “la BBC, che per sua natura deve sempre mostrare i due lati della realtà, ebbe paura di argomentare troppo contro Brexit, perché la destra al potere minacciava tagli ai finanziamenti e cercava di manipolare l’informazione televisiva e la carta stampata”.
Terzo errore: pensare di farcela da soli
“Il Regno Unito ha sempre sofferto i limiti imposti dall’Unione Europea, dal Mercato, temeva di perdere sovranità, potere e libertà all’interno di un’Unione in cui non si era mai fino in fondo riconosciuta e che veniva percepita solo per i limiti che imponeva. C’è da considerare una parte di nostalgia che non abbiamo mai perso, per un Impero che non esiste più e che non potrebbe più esistere in un’era di globalizzazione, dove sono richiesti compromessi e contaminazioni e dove il cambiamento è necessario perché significa dinamismo”.
Ma se prima della Brexit il pensiero europeo veniva svalutato molto ironicamente, in modo dissacrante, “con la tipica arroganza inglese, ora la narrativa che si tende ad usare verte tutta sulla nostra appartenenza alla civilizzazione europea e alla sua storia utilizzandola per con scopi sovranisti, impugnando questi valori per una guerra di civiltà contro gli immigrati e gli altri, per proteggerci”.
Conseguenze: meno investimenti, cultura, scambi
Quelli che soffrono le conseguenze della Brexit sono proprio quelli che hanno votato pro, soprattutto quelli delle classi più povere, che risentono della mancanza di investimenti. “Prima gli investimenti europei si riversavano nei piccoli centri, nelle periferie; magari non erano molto visibili, ma erano sostegni all’arte, al cinema, ai centri sportivi, alle biblioteche, alle scuole pubbliche. Ora la cultura si sta impoverendo, non ci sono più soldi per questi progetti e quelli che maggiormente ne risentono sono coloro che non possono permettersi alternative”.
La Brexit, infatti, è stata un moltiplicatore di disagio che ha acuito i problemi strutturali ed evidenziato le enormi diseguaglianze economiche e sociali che prima erano attutite dall’Unione Europea. L’economia è stagnante e la mancanza di investimenti esteri o il trasferimento all’estero di imprese e di lavoro ha conseguenze drammatiche su tutti i settori economici e sociali.
Cultura: i giovani pagano il prezzo
“Basti pensare alle Università. Prima della Brexit erano realtà dinamiche, all’avanguardia, coinvolte in scambi internazionali che accoglievano studenti ed accademici di tutto il mondo e che portavano denaro e dinamismo al mondo accademico. Eravamo parte di una grande rete di accademici europei, avevamo la possibilità di avere borse di studio, creare networks di conoscenza, Cern, ESA, milioni di euro che prima arrivavano nelle università perché avevamo le eccellenze mentre ora tanti cervelli sono partiti. E lo stesso vale per il mondo della musica, per quello delle arti. I giovani hanno avuto enormi opportunità grazie all’Europa, ma dopo il 2016 è cambiato tutto ed ora i giovani accusano i vecchi di aver rovinato il loro futuro”.
E dopo la Brexit?
A otto anni dal referendum, il dibattito è ancora molto acceso e il processo di autocritica ancora debole. “Non sappiamo, se ci dovesse essere un voto domani, quale potrebbe essere il risultato. Nonostante le conseguenze drammatiche siano evidenti, chi decise di votare per la Brexit continua a pensare che sia stata la scelta giusta, solo sviluppata male, mentre chi era contrario pensa che le colpe non siano tutte da attribuirsi alla Brexit. Abbiamo bisogno di altri 5 anni per capire cosa stia succedendo e dove stiamo andando. Siamo un paese con una crisi di identità e ci vorrà molto tempo per riscoprire la nostra posizione nel mondo”.
Questa situazione richiede un dialogo aperto con coloro che non sono stati capaci di apprezzare cosa l’Europa poteva offrire, per accoglierne il grido di disagio ed investigare quali limiti vedano nell’appartenere ad una famiglia più grande. “Ho letto recentemente un articolo in cui si diceva che i paesi storicamente più fragili come Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, stanno uscendo dalla crisi post Covid grazie al sostegno europeo. Avere un’identità comune europea ha aiutato alcuni paesi, come per esempio la Spagna, a mitigare i separatismi interni, come nel caso della Catalogna. Anche noi abbiamo bisogno degli altri per affermare la nostra differenza e definirci, perché da soli non funzioniamo. Dobbiamo ricordarci che il cambiamento è una costante e una ricchezza, dobbiamo aprirci, non chiuderci.
In Europa siamo sempre stati un po’ “the naughty child”, una voce diversa, che ora potrebbe rappresentare una ricchezza, potremmo offrire la nostra esperienza, i nostri errori, confrontarci. Siamo un paese dinamico e creativo, ma dobbiamo essere parte di un’immaginazione europea, dove sono nati i diritti ed il dialogo democratico e dove le grandi sfide comuni, come il cambiamento climatico, possono essere solo affrontate insieme. Abbiamo fatto l’errore di lasciare l’Europa invece di fare una critica dall’interno. Abbiamo scelto di divorziare, invece di fare terapia di coppia. Ma avevamo ancora molto da darci e da dirci”.
Natascia Accatino
(4 giugno 2024)
Leggi anche:
- Erasmus Plus: intervista a Vito Borrelli.
- Calais: storia di migranti, sgomberi e frontiere
- Piero Tassinari Alla ricerca di Europa per i suoi studenti