In occasione della Giornata internazionale della lingua Madre, indetta dall’UNESCO, il 21 febbraio, nella sala lettura “Luca Serianni”, della facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, Università degli Studi di Roma, si è svolto un seminario organizzato dal Centro Astalli con la Biblioteca del Dipartimento di Lettere e Culture moderne della Sapienza e la Biblioteca Europea. L’incontro, che si è tenuto nella sala che accoglie i libri del linguista e italianista scomparso qualche anno fa, oltre a rendere omaggio al professor Luca Serianni, docente noto e amatissimo dai colleghi e dai suoi numerosissimi alunni, è stato un momento per riflettere sull’importanza delle lingue, in particolare sulla lingua italiana e sulla letteratura della migrazione. Hanno preso parte ai panel, moderati da Marino Sinibaldi, saggista ed autore radiofonico, Fiorella Virgili, responsabile della Biblioteca Europea, Giuseppe Patota, professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Siena, Lucilla Pizzoli, docente di Linguistica italiana all’Università degli Studi Internazionali di Roma, Matteo Motolese, Professore ordinario di Linguistica italiana presso la Sapienza, le scrittrici Elvira Mujčić e Djarah Kan.
La lingua come orizzonte e non come frontiera
“Ho detto tante volte dell’importanza della lingua nel processo d’integrazione. Spesso ho redarguito chi, dopo anni che era in Italia, non avesse fatto sforzi per apprendere la lingua italiana.” Così Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, dopo i saluti istituzionali del direttore del Dipartimento, Marco Mancini, ha aperto il convegno “Riflettendo, mi rendo conto che forse, inconsapevolmente, sono caduto nell’ambiguità di aver usato la lingua come ennesimo strumento discriminatorio. Ho usato la lingua come una frontiera. Invece credo che la lingua, per essere strumento d’appartenenza, debba poter dire il presente, il passato e il futuro di chiunque ha ricordi, progetti e aspirazioni e che arriva a vivere in un nuovo paese. La lingua, è un organismo vivo e quindi è arricchita da chi emigra o è un italiano di seconda generazione perché apre ad un orizzonte più ampio. Dovremmo provare a trasformare la frontiera della lingua in un orizzonte comune che si arricchisce della storia di tutti, un luogo dove sentirsi a casa.”
Lingua casa comune, luogo di contaminazione
Il concetto della lingua e in particolare della lingua italiana come casa comune e, allo stesso tempo, luogo di contaminazione è stato il filo rosso che ha tenuto insieme tutti gli interventi, così come il ricordo di Luca Serianni e del suo pensiero sulla lingua madre e i contributi apportati dai nuovi italiani. “Serianni aveva un atteggiamento fiducioso verso la lingua delle migrazioni, credeva che la produzione letteraria, oltre che la lingua, si arricchisse di apporti diversi, contribuendo al processo di normalizzazione degli stranieri in Italia e soprattutto degli stranieri che scrivevano in italiano” ricorda Sinibaldi “ “pensava che questi contributi avrebbero cambiato il modo in cui si legge, si scrive in italiano e si raccontano le storie”.
L’Italiano nel mondo e nella scuola
Giuseppe Patota, partendo da un articolo di Luca Serianni, “L’italiano, gli italiani, i migranti”, pubblicato nel 2019, ha tracciato un quadro della storia dell’Italiano nel mondo sia all’interno che all’esterno del paese, ricordando come la tardiva unità politica del nostro paese, rispetto agli altri stati europei, abbia avuto forti ripercussioni sulla lingua italiana. “Mentre, alla fine del cinquecento, Francia e Germania, grazie all’unità politica si avviavano verso un’unità linguistica, noi abbiamo reso lingua comune quella di Boccaccio e Petrarca, grazie alla proposta di alcuni intellettuali. La fortuna dell’italiano nel mondo si deve più che alle strutture statali, di tardiva formazione, all’esercizio della cultura.” Matteo Motolese ha portato l’attenzione sul tema dell’Italiano nella scuola, con particolare riferimento all’integrazione scolastica dei nuovi italiani. “Nell’anno scolastico 2022-2023, si contano circa 915.000 ragazzi, di prima o di seconda generazione, che hanno provenienze linguistiche diverse, l’11% degli alunni iscritti,” racconta “ Per capire l’impatto che questo dato sta portando nelle nostre scuole, basti pensare che 25 anni fa, nell’anno scolastico 2000-2001 erano l’1,8%. “La distribuzione è molto diversificata” aggiunge il professore “nelle scuole del nord abbiamo una presenza di bambini stranieri molto più significativa di quanto non accade nelle regioni del sud. La scuola sta svolgendo un ruolo di estrema importanza” continua Motolese, “paragonabile a quello svolto, sempre dalla scuola, alla fine degli anni ’60, nell’alfabetizzazione delle classi popolari. L’italiano non era la lingua madre, la lingua madre era un’altra, l’italiano era la lingua che s’imparava a scuola. I dati Invalsi ci dicono che il deficit che deve essere colmato, tra gli studenti stranieri di prima e seconda generazione e gli italiani, è molto alto,ma non vanno letti solo come dati negativi. Le insegnanti stanno facendo, oggi, un grande lavoro per valorizzare le differenze. Il bilinguismo non è più visto con diffidenza ma si riconosce il vantaggio cognitivo per questi bambini perché sviluppano una competenza meta-linguistica, cioè la capacità di distinguere ciò che fanno nelle due lingue. La scuola è più avanti rispetto al paese, già è multiculturale e multi linguistica”.
L’Italiano come lingua letteraria dei nuovi italiani
Lucilla Pizzoli affronta il tema della letteratura dei nuovi italiani, ricordando l’interesse del prof Serianni per la lingua madre pur nella consapevolezza dell’importanza del plurilinguismo. “Mantenere saldo il legame con la lingua madre, è necessario perché solo una lingua di cui si ha una competenza molto solida consente l’accesso a contenuti concettuali complessi, sia per lo studente che per il docente.” Afferma con convinzione, “La lingua madre è visceralmente collegata alle nostre emozioni, alla capacità di stare comodi dentro uno spazio espressivo, sorprende perciò quando delle persone, che hanno nel loro bagaglio anche altri tessuti linguistici, riescano ad attraversare questa linea di confine e esprimersi in un’altra lingua e in una dimensione complessa come l’esperienza letteraria. Molti scrittori si trovano ad usare la nuova lingua ma l’italiano, quando è scelto, può essere vissuto anche come via di fuga dalle esperienze personali dolorose. Le lingue non necessariamente dialogano, molti pensano che si possa essere scrittori solo in una lingua alla volta.” Conclude la Pizzoli citando un saggio di Adrian Bravi.
Elvira e Djarah e la scelta di scrivere in italiano
Marino Sinibaldi, introducendo le scrittrici con cui dialogherà, ha fatto notare come sia comunque lento il processo di affermazione di questa nuova letteratura, di come i processi di normalizzazione esistenziale facciano fatica a tradursi in processi letterari editoriali.
Elvira Mujčić, scrittrice e traduttrice, vive a Roma, per lei la scrittura come atto creativo è sempre stata legata all’italiano, “non ho mai scritto nella mia lingua madre. Considero l’Italiano la mia seconda lingua madre, in realtà, fin da quando nasciamo non usiamo mai una lingua sola. La mia lingua madre è policentrica, ha aspetti e influenze diverse, anche di scrittura, e mi ha aiutata a capire come la lingua sia molto lontana dal concetto identitario. L’identità ci vuole identici a noi stessi, mentre i confini della lingua sono sempre aperti. La lingua madre per me ha coinciso con un gran senso di perdita, sono arrivata in Italia a 14 anni e non sapevo neanche come chiamare la mia lingua perché nel frattempo la Jugoslavia si era sciolta e quello che noi chiamavamo “la nostra lingua”, il serbo-croato, non esisteva più. Non esisteva la lingua e nemmeno il paese. Riuscire a posizionarsi e ritrovare un proprio spazio in un paese ex è molto difficile, perciò l’Italiano mi ha offerto uno spazio dove esistere” aggiunge convinta “Ha avuto un significato liberatorio, mi sono accorta che dire tavolo o guerra in italiano per me era lo stesso, mentre in bosniaco certe parole avevano un peso diverso, si caricavano di emozione. L’Italiano mi ha liberato dalla mai storia permettendomi di raccontarla”.
Djarah Kan, nata nella provincia di Caserta, ha sempre scritto in italiano. “Per me la lingua è il risultato di dipendenze, delle relazioni che stringiamo con gli altri” afferma sicura “Io sono cresciuta con una madre che parlava molto bene l’italiano e con me, in casa, parlava solo l’italiano, ma quando si arrabbiava mi parlava in inglese oppure in dialetto africano, se voleva insultarmi.” confessa sorridendo, “Certo l’italiano di mia madre era molto curioso perché era filtrato dal modo di pensare in ghanese. Gli africani non esprimono i concetti direttamente ma attraverso delle metafore, attraverso delle immagini. La lingua italiana che ho imparato da mia madre mi ha permesso di scrivere in modo differente la mia scrittura è stata la somma della relazione della lingua di mia madre, una lingua per immagini e la lingua che ho imparato da sola. Anche l’incontro con il dialetto ha avuto delle conseguenze sulla mia scrittura, ho imparato il castellano, il dialetto di Castel Volturno che poi si è agganciato ad altri dialetti, al napoletano e al casertano. Grazie a questa commistione di lingue e dialetti ora ho un modo di pensare che mi aiuta a scrivere in modo creativo”. La dipendenza non ha sempre un’accezione negativa per Djarah ma “è volontà di stare in un luogo o in una relazione; la relazione che ho avuto con Castel Volturno o con la mia famiglia, mi ha dato la lingua che io, oggi, utilizzo per raccontare le mie storie. Ma quando parlo di dipendenze parlo anche di potere, non solo di relazioni, la lingua esplora sempre i rapporti di potere di una comunità.”
Nadia Luminati
(25 febbraio 2025)
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