Fabrice Monteiro e Dillon Marsh: Afrofuturismo ed ecologia

L’impatto dell’uomo sull’ambiente nelle fotografie futuristiche di due artisti contemporanei che indagano il futuro partendo dal presente

All’interno del movimento artistico afrofuturista, due fotografi africani contemporanei riflettono sui temi ambientali e sul futuro non solo del loro continente e con immagini evocative e simboliche, saldamente radicate nei territori da esplorare, riescono a costruire un discorso critico sull’ambiente.
Due sguardi che partono dal Continente Africano ma dall’Africa escono per diventare linguaggi universali, capaci di sollevare domande e di aprire scorci su un futuro possibile con il solo potere evocativo della fotografia.
Fabrice Monteiro, con The Prophecy, costruisce diciannove profezie di un futuro probabile, creando figure mitologiche per rappresentare specifiche problematiche ambientali.
Dillon Marsh, con All Things Considered e For What It’s Worth, indaga l’impatto dell’uomo sull’ambiente, affidando ad enormi sfere la rappresentazione di quanto l’uomo abbia nel tempo sottratto alla terra.

L’Afrofuturism: visioni dal futuro

“L’Afrofuturism è un movimento estetico ed ideologico di resistenza, riappropriazione dell’identità ed immaginazione di futuri possibili in cui i protagonisti sono gli africani e le diaspore”, spiega Alessandra Migani, che ha curato la ricerca iconografica volta ad esplorare il contributo della fotografia contemporanea all’Afrofuturismo.
“Le radici di questo movimento affondano negli Stati Uniti nel periodo di grande fermento culturale e politico degli anni ’60 e ’70, quando la comunità afroamericana e la diaspora sentivano urgente la necessità di riappropriarsi della propria identità, rifiutando l’immagine stereotipata, marginalizzata ed arretrata con la quale venivano definiti e limitati dalla cultura eurocentrica dominante”.
Se per gli afroamericani la rivendicazione identitaria doveva necessariamente passare dalla creazione di un legame, spesso mitizzato, con il Continente Africano come luogo di partenza comune ad ogni diaspora e dalla schiavitù come ferita condivisa, per gli Africani era necessario innanzitutto liberarsi delle definizioni e dei giudizi attribuiti loro dall’esterno, prima di poterli sostituire con i propri significati.
Oggi, dal realismo magico alla street art, dalla fantascienza al fantasy, gli artisti contemporanei esplorano l’afrofuturismo in tutte le sue sfaccettature. Rimangono fondamentali al movimento la decolonizzazione dell’immaginario, sia subito che prodotto, il legame con le tradizioni, rievocate con orgoglio, e lo sguardo proiettato in un futuro che non vuole calcare quello immaginato da altri.
“Sembra che il resto del mondo sia già arrivato al futuro, ora tocca all’Africa, ha scritto il nigeriano Okwui Enwezor” continua Migani, “ma non si può iniziare ad immaginare il futuro senza riflettere sul passato, è necessario partire delle radici, come fanno sia Fabrice Monteiro che Dillon Marsh”.

Fabrice Monteiro: le profezie di un futuro (purtroppo) possibile

Fabrice Monteiro è un visual artist per metà belga e metà beninese che, dopo aver lavorato nel mondo della moda, si stabilisce definitivamente in Senegal ed inizia ad occuparsi di ambiente ed ecologia. Rivolgendosi principalmente alle nuove generazioni, che sembrano non avere coscienza di quanto l’inquinamento, la cultura dello spreco ed il consumismo abbiano profondamente cambiato il territorio non solo africano, decide di dedicare a diverse aree sensibili dell’ambiente una particolare rappresentazione simbolica, intesa come possibile “profezia” e nel 2013 realizza il primo dei diciannove scatti di The Prophecy. Attraverso immagini evocative di grande impatto visivo e ricercata costruzione formale, Monteiro riesce a creare elaborate realtà astratte con solide radici nella realtà presente.
Una discarica, il deserto, il mare, la savana, un allevamento intensivo, diventano i reali paesaggi dai quali partire, all’interno dei quali troneggiano specie di divinità mitologiche, principalmente femminili, che incarnano specifiche profezie ambientali.

La prima delle diciannove “profezie” finora realizzate è ambientata in Senegal, sul promontorio dove sorge una discarica: la divinità ha una gonna fatta degli stessi rifiuti che bruciano poco lontano ed inquinano con i loro fumi tossici l’aria. Un’altra, profezia della desertificazione, ha la gonna di arbusti ed un copricapo di pannelli solari, per portare l’attenzione sull’uso del carbone (ancora utilizzato nei villaggi per cucinare) quando l’energia solare potrebbe offrire un’alternativa percorribile. In un’altra profezia, dedicata ai rifiuti tecnologici, la divinità è vestita di nastri magnetici, ha una falce infuocata ed è circondata da carcasse di computer, tastiere, VHS e schede madri. I danni ambientali causati dagli allevamenti intensivi sono evocati dall’immagine di una donna, quasi una sposa, circondata di polli e vestita di piume e di uova, con una corona di zampe ed una collana di teste. L’inquinamento degli oceani è evocato da una sirena che esce dal mare incrostata di catrame e petrolio, sullo sfondo una nave è riversa di lato, mentre è vestita di sabbia in mezzo al deserto la profezia della desertificazione che avanza implacabile.

Dillon Marsh: a conti fatti, per quanto possa servire…

Non ci sono uomini nelle immagini di Dillon Marsh, l’artista di Cape Town che indaga, attraverso la fotografia, l’impatto che l’uomo ha avuto e continua ad avere sull’ambiente e la natura in Sudafrica, per esplorare il complesso e spesso fragile rapporto tra gli esseri umani e gli ambienti che occupano.
I suoi lavori combinano la fotografia di reali paesaggi naturali con immaginari generati al computer (CGI), “per poter rivelare significati e dinamiche sottostanti che la sola fotografia non potrebbe esprimere completamente”, spiega Migani, “e superano la semplice immagine naturalistica per acquistare un approccio più figurativo e interpretativo in grado di convogliare un forte messaggio di denuncia”.
In For What It’s Worth, Per ciò che serve, Marsh fotografa le cicatrici che le miniere hanno lasciato nel paesaggio, siano queste abbandonate da tempo o ancora attive, luoghi-simbolo nati per contribuire allo sviluppo del Paese ma al tempo stesso colpevoli di estrarre valore dalla terra, rubando risorse e violentandone l’equilibrio.
Dividendo il progetto in quattro aree (Rame, Diamanti, Oro, Platino), l’artista permette di visualizzare la reale portata del materiale estratto introducendo nel paesaggio una sfera, dello stesso materiale e di dimensione proporzionale, inducendo chi osserva a chiedersi se ne sia effettivamente valsa la pena.

Messaggio analogo per All Things Considered, A Conti Fatti, dove aggiunge una didascalia con i dati effettivi simbolizzati dalle sfere: una sfera d’oro adagiata sul letto secco di un fiume, 216.265 tonnellate d’oro estratto; una sfera rosa in un paesaggio fiorito, 560.000 di gomma da masticare consumata in un anno; una sfera nera tra le mangrovie, 1,3 tonnellate di anidride carbonica emesse in media da una persona; una sfera argentata in una spiaggia ghiacciata, 11.870 tonnellate di platino estratto; una sfera di zanne d’elefante, 1800 tonnellate di avorio. In ogni fotografia, con una semplicità disarmante, la visualizzazione simbolica dei pregi e dei difetti delle attività che hanno plasmato il paesaggio e l’economia del Sudafrica.

Natascia Kelly Accatino
(1 dicembre 2025)

 

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