Afropolitan: al MaXXI con i ragazzi africani di seconda generazione

Nell’ambito della mostra African Metropolis il progetto di mediazione interculturale che vede protagonisti africani di seconda generazione o autoctoni

Juru, Fathou, Salah, Alexandra, africani di seconda generazione o autoctoni, provenienti da diverse regioni del continente africano hanno in media  25 anni e sono  i “padroni di casa”, alla mostra in corso al MAXXI African Metropolis. Una città immaginaria. Infatti sono le guide speciali della mostra grazie al progetto di mediazione interculturaleAfropolitan”  realizzato dall’ufficio educazione del museo con la consulenza scientifica della Cooperativa Sociale, “La Speranza  e con la collaborazione dell’Ufficio Intercultura delle Biblioteche di Roma, di Baobab Experience ONLUS, del Centro Informazione e Educazione allo Sviluppo ONLUS, e del Consiglio dei Giovani del Municipio II. Il “servizio” di visita alla mostra che offre un punto di vista diverso e personale da parte dei ragazzi, rispetto a quello dei curatori, è previsto ogni giovedì e venerdi dalle 15.00 alle 19.00 fino al 4 novembre.

Foto di gruppo, in visita alla mostra troviamo dei ragazzi africani accompagnati da due volontarie dello spazio sociale autogestito della Garbatella “Casetta Rossa”
I ragazzi hanno risposto a un bando  nel quale non era richiesta lo specifico requisito di conoscere a fondo il continente africano per provenienza geografica o per legami intergenerazionali di famiglia, tanto che tra di loro è stata “selezionata” anche Beatrice. Studentessa romana, diafana e bionda,  che  in comune con gli altri ha solo un requisito condiviso da tutti:  l’amore per l’Africa. “Attraverso l’intensità e la ricchezza dell’arte africana, la mostra – ha dichiarato nel comunicato stampa  la presidente del MAXXI, Giovanna Melandri – evidenzia la bellezza e le contraddizioni delle città e del mondo di oggi. Oltre 100  lavori di 34 artisti africani diventano così gli elementi di una città immaginaria, di un percorso che tra fotografia, installazioni, sculture, tessuti e video, restituisce il caos, la ricchezza, le sfaccettature dell’identità contemporanea africana e globale”.
Abdoulaye Konate, Calao 2016
Il punto di ritrovo dove incontrare i ragazzi per iniziare il percorso della mostra, è l’installazione Le Salon Biblioteque di Hassan Hajjay, l’Andy Wharol africano,  che riproduce lo spazio di una libreria – salotto costruita interamente con le cassette rosse della coca cola locale, dov’è possibile riposare, conversare, leggere. Alle pareti “poster” di ragazze – modelle, vestite a metà tra moda e tradizione in sella ai loro motorini. Il tutto  incorniciato da scatolette di alluminio, come le Campbells di wharoliana memoria.

La mostra illustrata da guide speciali

Salah è l’unico nel gruppo dei giovani, che si alternano a seconda dei giorni, arrivato in Italia da un anno e mezzo, dopo essere fuggito dal Sudan su uno dei tanti “barconi dei disperati”. Parla perfettamente l’italiano, è un bel ragazzo alto e dinoccolato con degli occhi immensi che sembrano truccati con il kajal. Ne ha passate tante prima di ritrovarsi mediatore culturale al MAXXI, ma dice  “chi davvero vuole andare avanti e trovare la sua strada, chi è determinato ad arrivare fino in fondo, ce la fa”. A lui è andata piuttosto bene, perché sceso dal barcone, come rifugiato è stato accolto in una casa gestita dal Progetto Arca con altri ragazzi “poveracci come me”. Poi però Salah, si è messo subito in moto per avere il permesso umanitario e lo ha ottenuto in un anno. “Ho incontrato persone accoglienti –  racconta – che mi hanno fatto sentire come a casa mia, si sono comportate benissimo con me, come se fossi un qualsiasi amico dei loro figli”. Tra questi un professore dell’università La Sapienza dove ora Salah studia Social Media.

Da sinistra: Salah,Fathou, Alexandra, Juru e Beatrice
Dunque Salah ne è valsa la pena, affronteresti di nuovo il rischio del viaggio? “No, non credo che lo rifarei, quando sono partito non avevo idea di ciò che avrei dovuto affrontare. Ora che lo so, che l’ho vissuto sulla mia pelle, non avrei probabilmente più il coraggio di partire”. Salah ha scelto l’opera dell’artista del Camerun,  Maurice Pefura: “Non stop city” che evoca l’idea della crescita inesorabile della città.  “Mi ricorda il mio paese – dice – il Sudan. Al centro ci sono i palazzi del “potere” di metallo lucido che si differenziano dagli altri in semplice legno dove la gente stenta a sopravvivere”.
Non stop city, Maurice Pefura
Juru, 30 anni, capigliatura rasta e occhialetti di metallo da intellettuale, studia Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, anche lui a La Sapienza. E’ fuggito  dal Rwanda con i genitori, durante la rivoluzione, quando era ancora molto piccolo. Oggi è italiano a tutti gli effetti. Anche lui è convinto che per i ragazzi africani e rifugiati funzioni allo stesso modo che per quelli che sono nati in Italia. “Anche qui ci sono i Neet (not engaged) – dice – quelli che non studiano e non lavorano e non seguono corsi di formazione. Solo chi vuole, afferma Juru convinto – può riuscire a fare qualcosa, a prescindere dal colore della pelle e dalla situazione”.
AfricanMetropolis, SammiBaloji
Magari, però, fosse solo un fatto di buona volontà… Alexandra che è diplomata all’Accademia di Belle Arti e viene da Bari dove ha vissuto fin da piccola con la sua famiglia che è di Capoverde, un lavoro fisso lo sta ancora cercando e ha risposto al “bando” del Maxxi proprio per ampliare le possibilità di trovarne uno, anche cambiando città. “Avendo studiato Belle Arti” spiega, “cioè avendo avuto una formazione classica, sto imparando molto, anche sull’Africa, da questa mostra che mette in rilievo le contraddizioni di un continente che si sta rapidamente modernizzando”. Alexandra prende ad esempio l’opera del Wharol africano, la libreria – salotto “La ragazza sul motorino non mi sembrava avesse a che fare niente con l’Africa – dice – invece poi guardando bene si nota la stoffa del vestito che indossa che è africana e il cappello, così come il motorino che è di quelli molto usati nelle strade delle capitali africane. Il tutto, però, condito da una vernice modernista che all’inizio “spiazza” il visitatore”.Beatrice, infine, mostra insieme a Fathou le Falling House, le case sospese a testa in giù di Pascale Marthine Tayou, che possono essere interpretate suggeriscono le due ragazze – positivamente come un’esortazione ad aprirsi all’esterno alle altre culture, o negativamente come un sovvertimento del mondo in cui viviamo.
Pascale Marthine Tayou | Falling Houses, 2014

 Road to justice

Mettendo in dialogo opere della collezione permanente del MAXXI con altre scelte per questa occasione, la mostra Road to justice, a cura di Anne Palopoli, da vedere fino al 14 ottobre prossimo,  offre un’ulteriore riflessione sui temi del postcolonialismo, della memoria e dell’identità africana.  In mostra 11 lavori di 9 artisti: John Akomfrah, Marlene Dumas, Kendell Geers, Bouchra Khalili, Moshekwa Langa, Wangechi Mutu, Malik Nejmi, Michael Tsegaye e Sue Williamson. Video, dipinti, fotografie, installazioni che si articolano in tre aree cronologiche, riferite al passato, al presente e al futuro, alternando visioni personali e tradizioni.

Bambine di una scuola di danza tra le baracche, Sarah Waiswa
 In uno scenario passato, i temi sono quelli della schiavitù, del capitalismo, della segregazione, con riferimenti agli stereotipi della rappresentazione di persone “di colore” nell’arte figurativa occidentale. Nel presente l’apartheid, i movimenti di liberazione, il tema della migrazione e il recupero da traumi di cui siamo ancora oggi testimoni. La proiezione sul futuro presenta diverse riflessioni: dalla visione apocalittica del nostro pianeta nel video The End of eating Everything (2013) di Wangechi Mutu alla speranza che si manifesta attraverso l’esaltazione del perdono come forza liberatrice nell’opera It’s a Pleasure to Meet You (2016) di Sue Williamson, quello stesso perdono che Nelson Mandela sosteneva dovesse essere la principale risposta ai crimini dell’apartheid, per poter intraprendere un percorso di riconciliazione nazionale.
John Akomfrah, Peripeteia, 2012
 

Francesca Cusumano(18 settembre2018)

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