Nel mare ci sono i coccodrilli

“Frequentare gli immigrati aiuta ad abbattere i pregiudizi. Ognuno deve fare un passo verso l’altro, se si sta fermi sulle proprie posizioni si lavora su preconcetti. Spesso si ha paura di fare delle domande, ma non perché si pensa di ferire l’interlocutore, è che una volta conosciuta ogni vicenda personale, non possiamo più far finta di niente e voltare le spalle”, è la filosofia su cui si è basato Fabio Geda, quarantenne scrittore torinese che la mattina dell’8 marzo ha presentato nell’ambito della rassegna “Libri come” dell’Auditorium Parco della Musica il suo romanzo Nel mare ci sono i coccodrilli, davanti ad un attento e partecipe pubblico di ragazzi della scuola media statale Nistri Respighi.

La trama Geda ci racconta la vera storia di Enaiatollah Akbari, ragazzino afghano di etnia Hazara – disprezzata dai talebani e dai pashtun – rimasto orfano dopo che in un agguato alcuni banditi hanno ucciso il padre per derubarlo di beni che avrebbe dovuto consegnare ad un mercante che, come risarcimento, pretende di avere Enaiat al suo servizio, in condizioni vicine alla schiavitù. L’unica via di salvezza è raggiungere l’occidente, inizialmente visto come area geografica indefinita: non importa che si arrivi in Italia o in Norvegia, conta solo andare. Il tragitto è lo stesso di tanti suoi coetanei e connazionali, attraverso Pakistan, Iran, Turchia e Grecia, sempre con il rischio di venire rispediti al paese di provenienza o di morire, come a troppi è successo. “Ho voluto raccontare una vicenda a lieto fine, Enaiat è stato preso in affidamento da una famiglia torinese, ha ottenuto, pur con difficoltà, il riconoscimento di rifugiato politico. Adesso, poco più che ventenne, lavora ed ha la sua vita. La maggior parte di loro non arriva a tanto e questo serve a dare una speranza. I coccodrilli del titolo rappresentano la materializzazione delle paure dell’ignoto che si hanno da piccoli. Lui è riuscito a conoscerle, affrontarle ed esorcizzarle”.

Fabio Geda mentre parla ai ragazzi delle medie

L’incontro tra Geda ed Enaiat è avvenuto durante la presentazione di un suo precedente libro, Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, nel 2007, ma solo nel 2009 c’è stata la scelta di raccontarne la storia: “avevo paura di inquinare le sue memorie attraverso il filtro delle mie sensazioni, per fortuna il risultato è stato buono. Per mesi abbiamo solo parlato, per far riaffiorare ogni ricordo e riordinarlo cronologicamente. Solo dopo ho registrato il materiale. Non è stato facile perché lui si è creato una sorta di corazza, doveva proteggersi da tutto quello che ha visto e vissuto. Sembra che nulla lo emozioni più, nonostante due anni in psicanalisi”.

Il messaggio “Non volevo mandare un messaggio specifico con questo libro, ogni lettore trae la sua verità e attraverso le proprie idee ed esperienze la rimodella facendole assumere una forma unica. Temi come l’integrazione e l’accoglienza sono paragonabili al cibo. Come questo non sazia per sempre, non esistono libri definitivi, ci sarà sempre bisogno di raccontare nuove storie. In Italia siamo un po’ indietro a livello di pubblicazioni, uno che ammiro è Amara Lakhous – autore di Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio e di Divorzio all’islamica a viale Marconi(ndr)– abbiamo stili diversi ma è un bene variare”. Riferendosi agli studenti delle medie che, molto curiosi, lo hanno tempestato di domande: “la scuola è il luogo giusto per iniziare ad affrontare queste tematiche e un ruolo fondamentale ce l’hanno gli insegnanti, la loro vivacità si riflette sui ragazzi. Altrimenti rischiano di lasciarli spenti”.

Progetti futuri “Finora ho parlato di adolescenti, di diverse provenienze, perché è ciò che ho conosciuto facendo l’educatore in un istituto di affidamento dei minori. Ma non lavorandoci più dovrò cambiare, altrimenti tra 20 anni mi troverei a raccontare cose che apprendevo nel passato, con vecchi schemi, perdendone l’evoluzione. Per cui staccherò, cercherò nuove esperienze di vita che mi ispirino altri romanzi. Le idee mi arrivano dalla realtà, probabilmente se fossi stato un medico avrei scritto storie alla ‘Dr. House’”.

Gabriele Santoro(13 marzo 2012)