Se a distanza di più di un anno dalla sua pubblicazione ancora si parla di Accogliamoli tutti – testo scritto a quattro mani da Luigi Manconi e Valentina Brinis – un motivo c’è. Il pensiero corre in fretta al recente spot elettorale della Lega Nord, specchio, nei contenuti, della campagna di Marine Le Pen sull’immigrazione degli stranieri in Francia. Ma torna alla mente anche il referendum popolare con cui la Svizzera a febbraio ha posto un tetto alla cosiddetta immigrazione di massa, suscitando nei paesi vicini ondate di indignazione e qualche plauso. In buona sostanza, è evidente che le politiche migratorie, questione di grande effetto sulla popolazione di tutta Europa, diventino tema di scontro in campagna elettorale. Un libro come quello del duo Manconi-Brinis non può che colpire dritto al cuore del dibattito e sollevare curiosità e polemiche in egual misura.
Valentina Brinis, che avevamo già avuto modo di conoscere in occasione di Reclusi senza reato – l’incontro organizzato a marzo dal Circolo PD Esquilino per fare il punto sui CIE – è più che convinta di quello che scrive. Ricercatrice presso l’Associazione A Buon Diritto Onlus, studia quotidianamente le politiche italiane ed europee in tema di immigrazione: “nell’Associazione produciamo rapporti e studi periodici e raccogliamo storie e buone pratiche”, spiega, rimandando al sito Italia-Razzismo, che ha anche una rubrica omonima sull’Unità. Ma l’Associazione svolge anche un lavoro di lobbying, portando in Parlamento le questioni che arrivano dal lavoro sul campo: “all’Associazione hanno aderito venti avvocati, di cui quattro a Roma. Uno di loro si trova all’interno del CIE di Ponte Galeria”, continua. “A partire dagli sportelli legali A Buon Diritto raggruppa le questioni e ne fa materia parlamentare”: è così che le istanze vengono portate, dal campo, direttamente all’interno delle istituzioni.
Istituzioni che, secondo l’Associazione, a volte possono rivelarsi inadeguate, come nel caso della gestione del decreto flussi, che regola l’entrata dei migranti nel nostro paese, stabilendo annualmente numero e tipologia di lavoratori richiesti. Una forma di controllo sulle ondate migratorie che avrebbe più di una falla: “Le quote vengono definite l’anno precedente a quello di riferimento, per cui al momento dell’uscita del decreto i numeri non sono aggiornati”, spiega Valentina. “Il risultato è che spesso chi fa domanda per entrare in Italia con una determinata qualifica si trova poi, una volta qui, a fare tutt’altro. E che alcune professioni richieste non vengono mai coperte”.
Senza contare che il decreto flussi, che prevede tempi e procedure molto rigide, non tiene conto degli arrivi irregolari, gli stessi che hanno portato all’istituzione dei CIE e che provocano reazioni “di pancia” in gran parte della popolazione: aiutiamoli a restare a casa loro, suggeriscono da più fronti. Ma è davvero una soluzione praticabile?
“In linea di principio sarei d’accordo, ma per dare davvero aiuto bisogna adottare delle politiche specifiche”, sostiene Valentina. “Bisogna investire molto in cooperazione internazionale, anche in termini economici: non mi sembra che finora si sia lavorato a sufficienza in questo senso. Inoltre bisognerebbe favorire l’invio delle rimesse, che allo stato attuale sono tassate in modo eccessivo. Finché non si opera in questa direzione, l’unica opzione realistica è l’accoglienza: le altre sono parole al vento”.
Un’accoglienza che deve rispondere comunque a dei criteri. Nel convegno di marzo si era già parlato delle cifre che ruotano attorno ai CIE: cinque centri che ospitano meno di cinquecento persone per una spesa totale di 200 milioni di euro (dati riferiti al 2013 ndr). Le soluzioni sono solo due: “Se necessario si deve procedere all’espulsione” afferma Valentina “altrimenti bisogna optare per forme alternative di accoglienza diffusa”. Nel primo caso, i CIE diventerebbero dei luoghi di brevissimo transito (“non più di due-tre giorni”) per ospitare gli stranieri da rimpatriare; nel secondo, la costituzione di nuclei abitativi all’interno delle città porterebbe a un nuovo modello di integrazione, in cui “l’italiano potrebbe conoscere finalmente il ghanese, perché sarebbe suo vicino di casa”. Inutile chiedersi se l’Italia sia o meno pronta: l’unica strada è quella di operare un cambiamento radicale. “Con l’abolizione del reato di immigrazione clandestina è passato un messaggio sbagliato: che tutti gli immigrati irregolari fossero dei criminali. Dobbiamo cambiare il sistema per ottenere degli effetti, e per fare questo non è sufficiente abolire la Bossi-Fini, come spesso si auspica: bisogna cambiare la mentalità della popolazione passando per le riforme”.
L’occasione c’è, date le imminenti elezioni europee. Quali sono, realisticamente, le proposte che l’Italia può portare in Europa? Innanzi tutto “è inutile che chieda altri soldi: ne arrivano a sufficienza. L’Europa e l’Italia dovrebbero lavorare insieme sulla messa a punto di nuovi centri di accoglienza”. Valentina, che lavora in un campo profughi allestito a Tor Marancia per gli afghani in transito verso il nord, sa quanto sia difficile operare in condizioni precarie: “gli operatori devono essere in grado di dare delle risposte a chi si trova lì. Quando non c’è chiarezza non si può aiutare, e la situazione diventa insostenibile”.
Un motivo in più per non lasciarsi sfuggire un’occasione tanto importante.
Veronica Adriani
(8 maggio 2014)
Leggi anche…
Intervista a Cécile Kyenge: l’Italia crei un modello di integrazione
Accoglienza e integrazione degli alunni stranieri: le nuove linee guida