A seguire l’opinione comune sembrano venire da un altro pianeta, alieni senza alcun tratto di umanità. Eppure rom, in lingua romanì, significa proprio essere umano. L’Associazione 21 luglio sabato 15 novembre ha organizzato un evento di dialogo con giovani attivisti rom e sinti contro gli stereotipi. Sono la più grande minoranza d’Europa, 12 milioni. In Italia ce ne sono tra i 160 e i 180 mila: 4 rom su 5 vivono in casa e lavorano, hanno una vita normale, ma per gli italiani è ancora difficile immaginarlo.
Nel foyer dell’YWCA, che ha ospitato l’evento, i ragazzi che stanno frequentando il corso di diritti umani organizzato dall’associazione siedono in platea. Al tavolo dei relatori: Gladiola, Miguel e Sabrina, alcuni dei partecipanti dell’anno scorso. Insieme si portano dietro almeno una decina di culture diverse.
Sabrina è cittadina italiana e vive in un campo rom in provincia di Oristano, è chiaro dalle sue vocali chiuse. Miguel è nato in Italia da padre sinti e madre rom. “Ci sono tracce della mia famiglia in Italia dal 1400. Alcuni miei parenti sono stati partigiani, mentre mio nonno è scappato dai campi di sterminio del Montenegro durante la seconda guerra mondiale”, spiega. Gladiola parla con un forte accento calabrese e vive a Roma per studiare Scienze Ambientale. Sua madre è romena: “Nel paesino dove vivevamo in Romania siamo cresciuti tutti insieme, rom e non rom, senza alcuna differenza”.
I tre attivisti hanno svolto un tirocinio presso l’Associazione 21 luglio alla fine del corso. Quest’anno ci sono altri giovani che sperano di cambiare le comunità grazie al loro impegno. “Vorrei aiutare i ragazzi ad avere una vita normale, perché quando vivi in un campo sei contaminato, non ragioni con la tua testa”, spiega Debora. Ha 19 anni ed è nata in Italia, ma solo l’anno scorso ha ricevuto la cittadinanza: “Sono stata molto felice, perché vuol dire che ora ho dei diritti”. Mentre Giura lo fa anche per se stesso, ha 28 anni e da quando ha lasciato la scuola ha cambiato tutti i mestieri del mondo. Di recente è stato tirocinante in una mensa scolastica, gli avevano promesso un contratto che ha smesso di aspettare. “Quando si accorgono che sono rom e vivo in un campo è tutto più complicato, ma io preferisco dirlo prima perché tanto poi se ne accorgerebbero”. Vive a Roma da sempre, ma ogni anno deve dimostrare di avere una ragione per restare quando va a rinnovare il permesso di soggiorno.
Queste storie si scontrano con le immagini forti che veicolano i media. “Ho una figlia di 10 anni, sua madre è italiana, e so che potrebbe crescere con un senso di vergogna leggendo certe cose. In questo modo si alimenta l’odio”, dice Miguel. Ma poi sdrammatizza, si prende gioco dei pregiudizi: “Mi diverto a rivelare la mia etnia, dopo un po’ che mi conoscono, per vedere la reazione della gente. Una sera stavo chiacchierando del più e del meno con una studentessa di diritto. Eravamo d’accordo su molte cose. Quando è venuto fuori che sono rom non ha reagito bene, ha detto che vorrebbe bruciarci tutti. Io non brucerei mai altre persone, voglio che esistano delle leggi e che siano rispettate”.
Sabrina va nelle scuole per contrapporre la sua immagine a quella fatta di stereotipi. “L’unico modo per superarli è la conoscenza, da entrambe le parti. C’è bisogno di aprire la mente a nuove culture. Non chiedo l’integrazione, ma almeno un’interazione. I bambini mi fanno domande assurde. Una volta uno di loro mi ha chiesto: è vero che mangiate i gatti? Stiamo tornando indietro, all’epoca del fascismo. Prima ero molto curiosa di scoprire tutti gli eventi dell’Olocausto, ora non riesco nemmeno a vedere un film che parli di quegli anni perché mi sembra che ci avviciniamo a rivivere il corso della storia”.
Rosy D’Elia
(18 novembre 2014)
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