Tra le minacce più gravi alla salute di una società c’è senza dubbio un’emorragia: la dispersione scolastica. Secondo le stime Eurostat in Italia i ragazzi che abbandonano gli studi prima di arrivare al traguardo di un titolo sono il 17,6 per cento, circa 2 su 10. Ancor meno rassicurante è il dato che riguarda gli stranieri in Italia: il 39,1 per cento interrompe gli studi.
La ricerca Lost – Dispersione scolastica: il costo per la collettività e il ruolo di scuole e Terzo settore, presentata il 20 gennaio a Roma e promossa da da WeWorld, Associazione Bruno Trentin, Fondazione Giovanni Agnelli e CSVnet, parte da questi dati e approfondisce cause e conseguenze del fenomeno analizzando il contesto di quattro città chiave: Milano, Roma, Napoli e Palermo. La percentuale di abbandono in Italia è preoccupante se si considera in maniera isolata, positiva se si mette in relazione con gli anni passati (in 10 anni c’è stato un miglioramento di 6 punti), insufficiente se si considera l’obiettivo dell’Agenda Europa 2020 che punta ad arrivare sotto il 10 per cento in 5 anni. La media europea è dell’11,9 per cento.
Non è semplice ridurre gli elementi che portano all’abbandono di un percorso formativo alle voci di un elenco, ma ci sono fattori che possono incidere più di altri. Oltre ai disturbi di apprendimento, un ambiente sociale ed economico svantaggiato e le difficoltà relazionali sono le cause principali, e non è difficile immaginarlo soprattutto se si pensa agli stranieri. È vero che, in alcuni casi, proseguire gli studi può costare caro, ma decidere di abbandonare ha un prezzo ancora più alto. E non solo sul piano personale. Secondo la ricerca se non ci fosse dispersione scolastica, il PIL potrebbe crescere dall’1,4 al 6,8 per cento.
Capire le cause che portano i ragazzi a lasciarsi alle spalle i banchi di scuola è complicato e individuarne le responsabilità quasi impossibile. Ma una cosa è certa: la scuola lascia andare i più deboli dimostrando di non avere abbastanza forze. Per questo il Terzo settore, le associazione e gli enti no profit, colmano un vuoto istituzionale e assumono un ruolo fondamentale da nord a sud, dalle elementari alle superiori. Gli operatori, soprattutto a Roma, supportano gli studenti direttamente negli istituti e, come si legge nella ricerca, “l’utenza che si segue con maggiore assiduità è quella straniera: in questo caso il tutto prende le mosse da un supporto nell’apprendimento dell’italiano e quindi nel rafforzare il minore– soprattutto se più grande – nella gestione e comprensione di un modello culturale, educativo e pedagogico nuovo (del tutto o anche solo parzialmente)”.
Ma anche il Terzo settore affronta problemi e sfide: gli intervistati di 229 enti, 52 con sede a Roma, concordano sulla difficoltà di reperire i fondi, sulla necessità di agire con interventi più strutturati e sulla mancanza di collaborazione di alcune scuole. Ma propongono anche soluzioni che pongano al centro gli studenti, con i più grandi che guidino i più piccoli, che supportino gli alunni in tutto il percorso formativo, che facciano leva sulle qualità e non sulle mancanze. “In particolare si pensa agli studenti di origine straniera, ai quali viene chiesto di conoscere la storia dell’Europa senza tenere conto che quegli stessi alunni potrebbero essere portatori di altre conoscenze e competenze: potrebbero sapere descrivere la storia e le gesta di eroi di altri continenti”.
E se scuola e associazioni lavorano nello stesso contesto, lo scopo non dovrebbe essere quello di colmare l’uno i vuoti dell’altro, ma provare, insieme, ad evitare che si creino. È questo l’unico modo per fermare l’emorragia della dispersione scolastica, e non semplicemente arginarla.
Rosy D’Elia
(21 gennaio 2015)
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