Dicembre 2015: i cancelli del Baobab chiudono definitivamente a seguito dello sgombero voluto dal Commissario Tronca. Le giornate che seguono sono difficili: fra i controlli delle autorità, i volontari continuano a prestare assistenza di fronte al centro. Forniscono un riparo e una prima accoglienza a chi ne ha bisogno, e intanto si organizzano, progettano.
Dalla convinzione che il modello di accoglienza europero debba essere ripensato, sono nati la rete internazionale Baobab Experience e, da qui, Pensare Migrante: tre giorni di dibattiti, proiezioni, racconti, musica e arte per raccontare esperienze, cercare soluzioni, progettare il futuro insieme ai suoi protagonisti.
Un programma ricco, quello dell’evento moderato fra gli altri da Piuculture, che proprio alla vigilia della Festa dei lavoratori decide di affrontare una delle questioni più spinose legate al lavoro in Italia: il caporalato. E per farlo non chiama studiosi o politici, ma sceglie la voce dei braccianti: quella che si diffonde dal 2012 dalle frequenze di Radio Ghetto.
Radio Ghetto, voci (libere) in diretta dai campi
Il Gran Ghetto di Rignano è un fazzoletto di terra nella Capitanata pugliese. Abbastanza distante da Nardò, città salita agli onori della cronaca a pari merito per la pizzica estiva e le rivolte dei braccianti del 2011, ma non tanto da essere mosso da dinamiche di sfruttamento poi molto diverse. La stampa e le istituzioni oscillano fra il desiderio di vederlo chiuso e l’indifferenza tra una raccolta (o rivolta) e l’altra.
Quando Radio Ghetto arriva tra le baracche e ne impianta una sua, stabile, lascia il microfono a chi nel ghetto ci abita e ha voglia di raccontare la sua storia, la fatica del lavoro, la nostalgia della famiglia, i sogni. Nel 2013 arriva anche il telefono e le prime domande dall’esterno: cos’è un ghetto, com’è fatto, chi ci vive? Si fa musica e si parla di diritti, e la radio cresce: emittenti locali mettono a disposizione i loro spazi, la stampa inizia a interessarsi del fenomeno. Le trasmissioni, multilingue, sono ormai disponibili su quasi tutto il territorio nazionale.
A Pensare Migrante Marco Stefanelli e Jack Spittle, speaker di Radio Ghetto, diffondono audio e proiettano foto: lasciano che a parlare siano le immagini. Capannoni coperti di plastica, cassoni di acqua a periodico rischio rottura, i danni degli incendi che di tanto in tanto scoppiano. “Nel ghetto ci sono interi quartieri divisi per etnia. Ci sono strade, esercizi commerciali, perfino un bordello, dove lavorano per il 90% ragazze nigeriane”, racconta Marco.”E’ sconvolgente pensare che ci siano persone che possono vivere tutta la vita lì dentro senza mai vedere la città”, spiega Jack, anche perché i servizi di trasporto sono quasi inesistenti: “due autobus al giorno che fermano vicino al ghetto”, e nient’altro.
Ripensare l’accoglienza
A poco vale l’impegno delle istituzioni locali, che pure non è mancato, se l’obiettivo finale di ogni intervento è insistentemente la chiusura del Ghetto. Primo, perché per rimpiazzare una struttura autosufficiente e organizzata si deve fornire un’alternativa sostenibile: “per molti il Ghetto è un modo per restare in contatto con la propria comunità, paradossalmente è uno strumento di socialità”, spiegano dalla radio. E poi perché “il ghetto è frutto di una mancanza di percorsi di inclusione abitativa e lavorativa” a monte: è il risultato di un paese che non ha ancora trovato strumenti efficaci per realizzare un modello reale di accoglienza. Molti dei lavoratori stagionali il resto dell’anno sono ospiti dei centri di accoglienza di tutta Italia: per limitare il lavoro irregolare periodico basterebbe garantire un impiego regolare più stabile. Ma non è semplice.
C’è chi cerca di darsi da fare sulla questione a vario titolo e con vari strumenti: la Flai-CGIL con l’intervento sul campo, le associazioni con le campagne o l’assistenza locale e i report. “MEDU ha fatto un ottimo lavoro con il rapporto Terraingiusta” ricorda Stefanelli, presentando i dati di un report frutto di 11 mesi di presenza sul campo e studio quantitativo nella Capitanata pugliese.
Dal pubblico le domande sono tante. Perché le autorità non intervengono? Come si comporta la cittadinanza locale? Perché non costituire un piccolo sindacato? Da radio Ghetto si risponde puntuali, anche se con un minimo di sconforto. Soluzioni immediate non ce ne sono, a parte l’acquisto consapevole dei prodotti realizzati lontano dal caporalato, che molte piccole aziende già promuovono. Ma una domanda resta aperta: senza l’impegno concreto della grande distribuzione, “come si può fornire pomodoro etico a 59 milioni di persone”?
Veronica Adriani
(4 maggio 2016)
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