Gli invisibili sulle rive del fiume Aniene: la storia di Ida e Daniel

Foto di Marcello Valeri
Foto di Marcello Valeri

Ida e Daniel sono due dei 7.709 cittadini invisibili della capitale. Vivono in un cubo di lamiera sulle rive del fiume Aniene, in un pezzo di terra ritagliato tra gli orti urbani del quartiere Nomentano. Senza acqua corrente, senza luce elettrica, senza gas.

Nel loro spazio si arriva proseguendo per un chilometro e mezzo sulla pista ciclabile che costeggia l’Aniene, appena fuori dalla stazione Nomentana. Da un lato il fiume, dall’altro la ferrovia, bastano poche centinaia di metri per inoltrarsi in società sommerse. Nel primo tratto ci sono due accampamenti rom, si intravedono panni stesi e teli tra la vegetazione. Proseguendo, il verde si fa sempre più fitto. Se non fosse per il rumore del treno che riporta lo sguardo in alto sui palazzi, sarebbe difficile ricordarsi di essere a Roma.

Siamo stanchi. Non siamo né morti, né vivi“, dice Daniel aprendo il catenaccio che chiude una vecchia rete da materasso come fosse un cancello. Ci fanno accomodare su una panca rimediata da scarti di legno e Ida si preoccupa di mettere una coperta sulla seduta. I panni stesi sono l’unica cosa candida. Vengono dalla Romania, dalla città di Brasov, una delle più ricche. Ida e Daniel sono una coppia, ma è difficile anche immaginare la condivisione in un posto come il loro. Sono in italia da 12 anni e da 8 vivono sulle rive dell’Aniene. Lei ha 50 anni e il viso segnato, lui ne ha 37 e l’aspetto di un uomo molto più adulto.

Foto di Marcello Valeri
Foto di Marcello Valeri

“È troppo difficile la vita qui”, dice Daniel. “È pieno di topi e serpenti, quando c’è vento cadono i rami e quando piove l’acqua entra dal tetto”. L’andamento delle giornate dipende dal meteo, e la fatica maggiore la richiedono i gesti semplici della vita quotidiana: “Cuciniamo utilizzando l’alcool, quando c’è”, aggiunge Ida. Mostra a malincuore le pentole color carbone: “Anche se le lavo, basta poco per farle annerire. L’acqua la prendiamo alla fontanella, tutti i giorni, una o due volte. Mamma mia, non te lo dico che fatica, a me non piace vivere così“.

Daniel non lavora, passa le giornate in giro a chiedere se qualcuno ha bisogno di manutenzione o di dipingere casa, mentre Ida ha un impiego come donna delle pulizie presso un’ambasciata per due giorni a settimana e guadagna 200 euro.

“Un po’ di tempo fa ci hanno incendiato il giardino. I carabinieri ci hanno detto che questa è proprietà del comune, ma che se non mettiamo altre persone ci permettono di restare”, col vicinato non hanno stretto un buon rapporto e anche con la comunità rumena non sono in contatto. “Non li conosco, non mi fido”, dice Ida. E continua: “Siamo venuti qua per questioni economiche. Al nostro paese non c’erano soldi, stavamo meglio sotto il regime di Ceausescu, tutti avevamo il lavoro e la casa, mancava solo la libertà”.

A guardarsi attorno, viene spontaneo chiedere se valga davvero la pena restare in Italia. “Anche per tornare ci vogliono troppi soldi, sono scaduti i documenti ma non possiamo andare in Romania a rinnovarli. E poi prima di qualsiasi cosa aspettiamo di avere giustizia”, risponde.

“Otto anni fa alla Stazione Tiburtina, Daniel ha incontrato una persona, non sapeva fosse un prete, gli ha detto che aveva lavoro per noi ma che era un po’ lontano, nelle campagna di Roiate. Così ci siamo trasferiti nella sua casa per curare il giardino, siamo stati sei mesi. Abbiamo fatto anche lavori di muratura. Ma lui non ci ha mai pagato, diceva sempre: ‘piano piano vi pago’. Quando abbiamo cominciato a chiedere i soldi, ci ha minacciato di chiamare i carabinieri. Noi intanto avevamo fatto anche dei debiti per comprare da mangiare, per fortuna ci hanno aiutato delle persone del posto”, racconta.

Foto di David Pagliani
Foto di David Pagliani

I due hanno chiesto aiuto a un avvocato, c’è stato un processo e una sentenza del giudice del lavoro che ha condannato Daniel e Ida a pagare le spese processuali. Mancavano i presupposti per dimostrare di aver avuto un rapporto di lavoro e la concessione della casa è stata definita un’opera di carità, come si legge nella sentenza. Ma i due non si danno pace, il loro obiettivo è recapitare una lettera al Papa in cui raccontano questa storia. Sembra essere l’unico scopo per cui hanno la forza di combattere.

Il rumore del treno e il vociare dei ciclisti del sabato fanno da sottofondo. Ida racconta i lavori che ha fatto in passato come badante, colf, baby sitter, Daniel ripete a denti stretti che non ce la fa più a continuare così. Ma poi la conversazione torna sempre sullo stesso punto: “Ci sarà un modo per recapitare questa lettera al Papa? Chi ci può aiutare?”

Rosy D’Elia

(9 novembre 2016)

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