Restare, intraprendere, riuscire (Toog Sabab Tekki, in lingua wolof). Sono queste le tre parole d’ordine della campagna di sensibilizzazione lanciata in Senegal, nell’ambito del Progetto “Ponti, Inclusione sociale ed economica, giovani e donne, innovazione e diaspore”, finanziato nel maggio del 2017 per due anni con 2 milioni e 357 mila euro dal ministero dell’Interno, dell’allora ministro Minniti, in linea con la logica dell’“aiutiamoli a casa loro” di renziana memoria.A pronunciare le tre parole che riassumono il significato della campagna di sensibilizzazione lanciata in Senegal dal Collettivo delle donne per la lotta contro l’emigrazione clandestina (Coflec) è stata, nell’incontro con la stampa che si è svolto alla Casa Internazionale delle donne per presentare il bilancio del progetto da poco concluso, Yayi Bayam Dlouf. Una donna energica e determinata, sebbene molto provata dalla morte dell’unico figlio di 27 anni che, come tanti altri, ha cercato di lasciare il proprio paese su un mezzo di fortuna, perdendo la vita. In seguito alla tragedia che ha subito, Yayi è diventata un punto di riferimento per le altre madri e donne del Senegal.“Grazie al progetto Ponti – ha spiegato a margine dell’incontro – la voce delle donne è diventata più forte: abbiamo aperto uno sportello per accogliere e orientare 550 utenti provenienti da Dakar e dalle zone limitrofe, in maggioranza giovani dai 18 ai 30 anni, che hanno ottenuto un accompagnamento finanziario anche dallo stesso Coflec, per il loro progetto imprenditoriale. Un’alternativa per superare situazioni economiche molto difficili, senza andare via dal proprio paese. Millecinquento – aggiunge Yayi- sono state le donne e i giovani raggiunti dalla campagna di sensibilizzazione che abbiamo lanciato”.Come è stato possibile – che lei non sia riuscita a convincere, proprio suo figlio, a non partire, a non rischiare la vita, quando ormai sono ben note le sofferenze infernali e i rischi di morire che comporta un viaggio simile? “I nostri ragazzi hanno sempre vissuto, come i loro padri – risponde Yayi – andando a pesca sulle loro piroghe. Ora questo non è più possibile, semplicemente perché il pesce non c’è più. Lo pescano in grandi quantità le navi delle multinazionali che da qualche tempo arrivano in Senegal e si appropriano del nostro pescato, lavorandolo direttamente a bordo come prodotto pronto per l’esportazione. A noi non resta più niente. Mio figlio come tanti altri ragazzi non si voleva arrendere a questa violenza, ma allo stesso tempo ha cercato una via di salvezza. Dopo la sua morte, e grazie al progetto “Ponti”, insieme ad altre donne, mi sono convinta della necessità di parlare ai giovani e di mostrare loro che si possono impegnare per far crescere e sviluppare il nostro paese, senza abbandonarlo”.Il progetto sviluppato in sette regioni di due Paesi africani, Etiopia e Senegal, con la collaborazione delle comunità della diaspora in Italia, da Arcs-Culture solidali come capofila, insieme ad altre 20 Ong italiane, straniere e locali – tra cui Aidos, Oxfam e Cipsi – si è rivolto in particolare alle donne e ai giovani, promuovendo corsi di formazione e di sostegno per la nascita di microimprese per sviluppare attività sostenibili nei Paesi d’origine. Il ruolo attivo delle donne, tra l’altro, è testimoniato negli scatti di Giulio Di Meo, frutti del tour fotografico svolto dalle periferie urbane del Senegal ai villaggi del Sahel, attraverso le storie dei protagonisti che si sono messi in gioco.
Restare, intraprendere, riuscire con la microimprenditorialità
Oltre 50 mila, dati alla mano, le persone raggiunte dalle campagne informative sui rischi della migrazione irregolare, 9 mila i giovani, le donne e i migranti che hanno acquisito competenze tecniche in gestione di impresa e sono restati nel proprio paese invece di partire evitando il rischio di morire annegati. Fondamentale tassello del progetto, la rete delle comunità all’estero che – ha sottolineato Susanna Owusu Twumwah del Summit italiano delle Diaspore – “ha in comune con Ponti l’obiettivo di creare un legame tra le realtà di diaspora in Italia e i Paesi d’origine, facendo sistema tra i vari soggetti che vogliono fare cooperazione internazionale”.Altra testimonianza di collaborazione sul campo è stata quella portata da Tsigie Halle Woldegiorgis di Women in Self Empowerment (Wise) che ha parlato di alcune esperienze ottenute grazie al progetto in Etiopia, uno dei paesi più popolati dell’Africa, con 2 milioni di persone in cerca di occupazione ogni anno. Ha raccontato del lavoro delle cooperative a Wolayta e della sfilata dei modelli realizzati dalle giovani donne che hanno partecipato ai corsi di formazione nel settore tessile a Guédiawaye.Maria Grazia Panunzi, presidente di Aidos Associazione italiana donne per lo sviluppo, ha parlato del diritto delle donne ad “avere un empowerment economico perché attraverso questo passa poi la loro autodeterminazione e autonomia, la gestione di un reddito e un diverso posizionamento all’interno della famiglia e della comunità”. Numerosi e diversi i progetti di Aidos: dal color accounting, per insegnare alle donne analfabete a fare i conti con l’uso dei colori, alla creazione di una linea di moda per bambini attraverso un corso di formazione di sartoria, a quello per la creazione di dolci e per la panificazione tenuto da due cuoche toscane a cui hanno partecipato 20 aspiranti cuoche etiopi, piccole imprenditrici nel campo della ristorazione.Andrea De Georgio, giornalista free lance che vive in Senegal da due anni e collabora con la rivista “Internazionale”, invece, si è fatto alfiere delle rivendicazioni dei giovani africani, una piccola parte per ora rappresentata dagli studenti universitari che si sentono moneta di scambio tra i loro politici e quelli dei paesi europei che insieme hanno dato vita al Fondo per l’Africa di 1, 8 miliardi di euro “per gestire i flussi migratori, quasi come fosse una questione idraulica: una falla da cui esce l’acqua che va tappata ad ogni costo”. Lo scambio prevede da una parte la tutela degli interessi colonialistici della Ue e dall’altra la quantità di aiuti sempre più ingenti che, pur arrivando ai governi africani, non vengono destinati alle popolazioni. Per questo, “i giovani africani che vivono in contesti urbanizzati e si sentono a pieno titolo parte dell’universo mondo, ritengono – ha concluso De Georgio – che ci sia bisogno di lottare in prima persona per rivendicare il proprio diritto a spostarsi ottenendo un visto per viaggiare e si rivolgono ai giovani europei e occidentali per unire le lotte giovanili del nord e del sud del mondo”.In chiusura le parole preoccupate della direttrice di Arcs e presidente di Aoi, l’Associazione che rappresenta le Ong italiane, Silvia Stilli, che ha plaudito ai risultati del progetto “all’inizio – ha detto – eravamo diffidenti perché era promosso dal ministero dell’Interno invece che, com’è sua competenza, dal Maeci Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale. Poi capimmo l’importanza che si voleva accordare con quel progetto alla governance dei flussi migratori, in particolare del Senegal e dell’Etiopia, puntando su interventi che affrontassero le motivazioni alla base del flusso migratorio”. Allo stesso tempo la Stilli si è rammaricata per il momento di grande difficoltà politica che sta attraversando la Cooperazione Italiana. “Per la prima volta nella nostra storia – ha detto – siamo arrivati ad agosto e ancora non sappiamo su quali e quanti fondi potrà contare l’Aps Aiuto pubblico allo sviluppo, per i prossimi anni, mentre sui media imperversa la campagna di discredito delle ong”.“Noi però non ci arrendiamo, nonostante questo clima ostile – ha promesso la Stilli – ci faremo promotori di una co-progettazione che metta in rete le risorse, in modo che si possa accedere anche sul campo ai finanziamenti europei, in dialogo con le diaspore e coinvolgendo la società civile, senza aspettare solo i soldi pubblici, che pure è diritto dei cittadini sapere quanti saranno e come verranno impiegati”.
Francesca Cusumano(29 luglio 2019)
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