Nel quartiere di San Basilio c’è uno spazio che sfugge all’isolamento delle periferie e che è al contrario un luogo di accoglienza, ascolto, scambio, condivisione: è Spazio Donna, un progetto cominciato agli inizi del 2016 e promosso dalla onlus We World, con l’idea di aprire spazi dedicati alle donne in diverse città d’Italia, gestiti da associazioni locali.
A Roma, è la Cooperativa Sociale Be Free che si occupa di costruire la ricca offerta di servizi gratuiti di Spazio Donna: dall’assistenza psicologica a quella legale, ogni donna può sentirsi accolta a supportata per uscire da situazioni di isolamento, prevenire situazioni di violenza di genere, o in molti casi, intraprendere un percorso per superare i traumi di violenze subite.
Ma Spazio Donna non è propriamente un centro antiviolenza: “è uno spazio di aggregazione ed empowerment“, spiega Marta Mearini, coordinatrice e operatrice del centro: “da una parte c’è il sostegno individuale fornito da diverse figure professionali, come educatrici e psicologhe. Dall’altra ci sono numerose attività di gruppo, come laboratori di teatro, bioenergetica, spazi dedicati ai bambini e diversi eventi come presentazioni di libri”.
Spazio Donna: le storie
In quattro anni di attività, Spazio Donna ha accolto più di 500 donne all’interno di percorsi di empowerment: “si tratta per lo più di donne italiane, ma ci sono anche molte straniere. La tipologia di violenza più diffusa è quella domestica, e questa è una situazione trasversale a diversi ambienti sociali e che non fa la differenza tra donne italiane e straniere”, spiega Marta.
“Certo è che le donne straniere vivono sulla propria pelle la discriminazione e l’isolamento. Sono ancora più fragili: spesso non conoscono la lingua, né comprendono i meccanismi di tutela dei propri diritti poiché provengono da sistemi giuridici e culturali differenti. A molte di loro spesso manca anche una rete familiare di supporto. Sono ancora più vittime di pregiudizi e anche a livello istituzionale sono guardate con lo sguardo inquinato degli stereotipi”.
Paola, Anna e Diana (nomi di fantasia) sono tre donne che hanno subito violenza domestica da parte dei loro mariti e che grazie al sostegno di Spazio Donna sono state in grado di riprendere in mano la loro vita e uscire da anni di prigionia e abusi. “Sono libera da ormai tre anni”, racconta Diana, 31 anni, ucraina. “Dieci anni fa sono arrivata in Italia e ho conosciuto quello che è poi diventato mio marito. Abbiamo avuto un figlio, poi le cose sono iniziate a cambiare, sono iniziati i primi abusi psicologici. Quando è arrivato alle mani, ho sporto denuncia il giorno dopo, ma la denuncia non è stata accettata, dicevano che non avevo segni sul corpo. Ero scioccata e allora ho chiamato il numero rosa che mi ha consigliato di rivolgermi a Spazio Donna“. Qui Diana riceve supporto psicologico e decide di andare avanti legalmente, anche se “è passato più di un anno e sono ancora in attesa di documenti dall’Ucraina”.
“Per me la famiglia è tutto, io credevo nella famiglia per tutta la vita. Ma ci sono donne che per paura di restare sole continuano a soffrire tutta la vita. Non dico che sia facile, io all’inizio l’ho perdonato quando mi ha chiesto di tornare insieme. Poi ha ricominciato ad abusare di me, mi diceva “Sei brutta, sei grassa, non vali nulla”. Quando stava per rientrare in casa mi tremavano le mani perché non sapevo di che umore l’avrei potuto trovare; e poi ero rimasta sola, le mie amiche non mi ospitavano più quando scappavo da mio marito perché avevano paura; io oggi ho ancora delle paure, ma mi sento più forte e più felice: il basket era la mia vita, e oggi mi sono iscritta a un corso insieme a mio figlio”, continua Diana, che ora, dopo un anno in una casa famiglia, vive in una casa semiautonoma con suo figlio e un’altra mamma, “una casa in cui respiro finalmente la tranquillità”.
Paola, 54 anni, è italiana e ha conosciuto Spazio Donna tramite un’amica. “Ho denunciato mio marito per violenza domestica. Dalle operatrici ho ricevuto tutto il supporto possibile e credo che questo centro sia importantissimo perché, a prescindere dalla denuncia dall’atto di violenza, è importante che le donne si riapproprino di sé stesse, riconoscendo il proprio valore e la propria forza. Si pensa sempre che con la denuncia si risolva tutto, invece denunciare è solo la punta dell’iceberg”.
“Per riniziare da capo bisogna mettere in conto tante conseguenze”, racconta Anna, 36enne di origine bulgara, in Italia dal 2015. “C’è voluta tanta forza per denunciare mio marito. E oggi lotto ancora per ottenere giustizia, perché con il rito abbreviato sconterà tre anni di carcere invece di sei. Questa cosa mi fa male, per tutto quello che ho subìto non c’è giustizia. Quando l’ho conosciuto sembrava il “principe azzurro”, io avevo già subito per tredici anni violenze dal precedente marito, col quale ho tre figli. Ho deciso di vivere con lui, egiziano. Abbiamo avuto un figlio. Dopo il parto è cambiato tutto. Sono iniziati problemi di soldi, perché aveva acquistato una terra in Egitto, poi è arrivato suo fratello in casa. Quando mio marito è tornato per un mese in Egitto, ho subito da lui abusi psicologici e violenze. Mi controllava, mi ricattava dicendomi che se mi fossi comportata male nei confronti di mio marito assente in quel momento ne avrei pagato le conseguenze.
Quando mio marito è tornato dall’Egitto, era un’altra persona, ha alzato le mani su di me e su mia figlia che aveva sei anni. Ero una bomba che esplodeva di dolore. Voglio dire una cosa: gli uomini non cambiano. Tentano di farsi perdonare, o di farti sentire in errore. Ma non cambiano”.
È la stessa frase che sottolinea Diana: “Gli uomini non cambiano e le parole di perdono degli uomini violenti non valgono nulla”. E aggiunge: “La violenza non ha nazionalità: non c’è un paese senza un uomo tiranno”.
Spazio Donna presenta “La legge del mare”, con uno sguardo al femminile
Di violenza, anche mediatica, sulle donne si è parlato giovedì 9 gennaio a Spazio Donna nell’accogliente salotto del centro, dove Francesca De Masi, vicepresidente di Be Free ha dialogato con la giornalista Annalisa Camilli per presentare il suo libro La legge del mare. Cronache dei soccorsi nel Mediterraneo. Si è parlato di fake news, di “politiche” gestite a suon di hashtag, di quella campagna di propaganda che la Camilli chiama “maquillage delle parole” operato da attori istituzionali e non, per il quale i “centri di detenzione libici” diventano “centri di accoglienza”, i “trafficanti libici” vengono chiamati “guardia costiera libica”: parole che vengono a formare una “narrazione tossica dell’immigrazione” che si fonda sulla dicotomia vittime-criminali. E poi ci sono le storie, sia dei soccorritori che dei soccorsi, che la giornalista ha voluto raccontare in tutta la loro umana sofferenza.
“Sono stata a bordo della Open Arms e ho visto la violenza dell’abbandono: ho assistito al ritrovamento di un gommone sgonfio a 80 miglia dalle coste libiche, che trasportava una sola superstite e due cadaveri, tra cui quello di un bambino. La superstite era Josefa. Mentre la Open Arms che aveva effettuato il salvataggio era costretta a dirigersi in Spagna per attraccare, per alcuni commentatori legati alla nuova destra europea la notizia era un’altra: le unghie di Josefa laccate di smalto rosso in una foto scattata il giorno dello sbarco a Palma di Maiorca”.
Annalisa Camilli ha visto molte donne soccorse in mare: da dove vengono queste donne? Perché scappano? “Secondo l’Oim, le ragioni che spiegano la loro partenza non sono esclusivamente di natura economica, ma sono riconducibili soprattutto alla violenza di genere che subiscono nel loro paese di origine: mutilazioni genitali, matrimoni forzati, violenza domestica. Secondo le Nazioni Unite, nelle crisi umanitarie il 70 per cento delle donne ha subìto violenze di genere. Molte chiedevano “e ora, cosa succederà dopo la sbarco?””.
“In un paese dove alla violenza patriarcale si aggiunge quella istituzionale, è davvero difficile poter dare una risposta a chi è donna e migrante“, ha commentato Francesca De Masi. “Questa società è ingiusta e diseguale per tutte le donne, ma per le straniere di più: c’è una violenza che non è solo fisica, ma anche normativa. Si trovano spesso a dover raccontare la propria storia a tanti, spesso con la paura di non essere credute.”
“Eppure le donne straniere ci insegnano che dobbiamo ancora lottare, tenere relazioni tra mondi e culture diverse“, conclude Camilli, “mettere in atto uno slancio trasformativo di questa solitudine per recuperare una dimensione collettiva che passi anche dal conflitto”.
Spazio Donna San Basilio
via Antonio Provolo, 24 (Zona Tiburtina)
telefono 3887380795;
mail: spaziodonnasanbasilio@gmail.com
Elisabetta Rossi
(15 gennaio 2020)
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