Quelle di Adem, bosniaco, Lidija e Milena serbe, Dzemila montenegrina , Stefi slovena sono le testimonianze di emigrati dalla ex Jugoslavia che hanno trovato la loro strada in Italia. Con Trieste, città di confine, multiculturale per definizione c’è un rapporto storico per la comunità serba presente da oltre 200 anni, alla quale appartiene Lidjia che ormai è cittadina italiana. Diversa la posizione di Milena, che pur essendo serba di origine, vive a Trieste come una vera triestina. Delle sue origini quasi non si ricorda più. Adem, bosniaco di Sarajevo, ha vissuto tutti e quattro gli anni della guerra nella sua città da testimone “in diretta”. All’epoca aveva 16 anni e faceva l’interprete per i giornalisti italiani. Oggi vive a Manfredonia con la moglie che è pugliese. Dzemila,montenegrina rom, vive a Roma e fa parte di quella comunità di fatto più numerosa proveniente dalla ex jugoslavia ancora in gran parte “ghettizzata” nei campi nomadi di cui difende i diritti.Poi c’è Stefi transfrontaliera dalla Slovenia. Proprio quel tipo di permesso di soggiorno che ha fatto slittare la comunità jugoslava al top della classifica degli arrivi in Italia, negli anni ’70 , che comprendeva l’”esercito” dei lavoratori che passavano il confine ogni giorno per venire in Italia a lavorare, ma poi tornavano la sera ai paesi di origine. Oggi ha 77anni e ricorda il tempo passato con un po’ di nostalgia nel tono di voce.Vive in campagna con il marito, ha due figli che a loro volta si sono sposati e hanno messo su famiglia. Entrambi fanno i meccanici e devono anche a lei la loro tranquillità. Infine Slobodan il “barese balcanico” che da Belgrado è “scappato” a Bari all’inizio della guerra, ma poi è tornato nel ’99 per raccontarla all’interno del pool della struttura messa in piedi appositamente in quegli anni dalla Rai. Storie molto diverse che contribuiscono a dare uno spaccato di quella che resta un’emigrazione sui generis spesso con un alto livello culturale di partenza, persone che negli anni si sono perfettamente “integrate” con la realtà che li ha accolti, diventando italiani a tutti gli effetti.
Lidija e la comunità serba di Trieste
Quando arriva in Italia, nel ’97, a Gorizia, insieme alla madre Lidija è una ragazza benestante di Belgrado. Oggi ha 40 anni, è single ed è un membro attivo della comunità serba di Trieste. Il padre ingegnere viene richiamato al fronte all’inizio della guerra per un periodo di prova di due settimane che devono fare tutti i maschi fino ai 60 anni, per affiancare i militari di leva che fanno parte dell’esercito dai 20 anni. “Per fortuna l’azienda fece presente che mio padre aveva un importante ruolo e che la ditta non poteva privarsene per farlo partecipare, digiuno com’era, alle operazioni militari”. Da quel momento la famiglia continua a seguire le vicende della guerra che si sta svolgendo in territorio bosniaco solo sui notiziari e sui giornali. L’anno dopo l’ingegnere si trasferisce a Gorizia per aprire una nuova sede dell’azienda. Lidija ha finito le scuole superiori e deve iscriversi all’Università, dunque la decisione è presa: la famiglia si riunisce a Gorizia. Lidja diventa maggiorenne e anche se vive in famiglia, mantenuta dal padre, deve avere un permesso di soggiorno autonomo per studio che costa 5000 euro e che il padre si può permettere di pagare. Nel ’99 iniziano i bombardamenti su Belgrado programmati dalla Nato con gli aerei che partivano dalla base americana di Aviano.“Io e mia madre – ricorda Lidija – sentivamo passare sopra le nostre teste gli aerei che andavano a bombardare le nostre case e vivevamo nel terrore che qualcuno dei nostri familiari rimanesse ucciso”. In seguito a uno dei bombardamenti che distrugge la sede principale dell’azienda dove lavora, il padre di Lidija deve cercare un altro posto, e lo trova a Udine. La vita continua tra mille difficoltà. “All’Università non erano pochi gli studenti che incontravo che mi accusavano, in quanto serba, di stare compiendo delle atrocità nel mio paese “lasciateli andare quei poveri albanesi” mi apostrofavano. Io ci rimanevo malissimo perché sapevo perfettamente che l’informazione che passava in quel momento sui media era sbilanciata contro la Serbia e non diceva la verità sulle vere motivazioni della guerra del Kosovo. È stato proprio questo pregiudizio nei confronti dei serbi che passavano per essere tutti “cattivi” a spingermi a dimostrare nei fatti di essere una “brava” persona, anche più brava delle altre.
Da studentessa a titolare di permesso di soggiorno per lavoro
Il completamento degli studi prende qualche tempo in più e Lidija si ritrova a essere fuori corso di un anno. “Mi arrivò immediatamente la lettera di espulsione: il mio permesso di soggiorno per motivi di studio era scaduto e dovevo tornare in patria. A quell’epoca tra il 2004 e il 2005 – continua – c’erano le quote di ingressi che ogni 16 febbraio venivano stabilite dal ministero del Lavoro e che finivano nel giro di poche ore, con gli uffici presi d’assalto dai richiedenti”. Non è facile convertire il permesso di studio in permesso di lavoro. Ma Lidija,ragazza intraprendente, trova un amico che la nomina formalmente amministratore della sua piccolissima società che lavora con gli alberghi. Con questo incarico riesce a dimostrare di avere una occupazione e ad ottenere il relativo permesso. Nel frattempo Lidija si laurea con 110 e lode Da lì a trovare il nuovo lavoro il passo è breve. Nella grande società triestina, dove lavora tutt’ora, cercano una stagista per raccogliere interviste on line per il customer care. Il posto è suo. In breve si delinea una vita fatta di lavoro, impegno sociale e politico.Entra a far parte della commissione pari opportunità di Trieste, lavora anche all’interno del sindacato, ma soprattutto Lidija non dimentica il suo paese, la Serbia. È una delle animatrici dell’associazione culturale giovanile serba che si occupa dei problemi quotidiani di studio e lavoro che possono avere i ragazzi, non solo serbi. “Metto a disposizione la mia competenza – spiega – visto che lavoro nell’ufficio personale di una grande azienda”.
Milena e il bagno nell’Oceano con i proprietari della Stock
Milena si considera triestina a tutti gli effetti, ma è arrivata a Trieste 40 anni fa da un piccolo paese della Serbia al confine con la Romania. “Da bambina ho dovuto fare un anno di scuola in più – racconta – per imparare il serbo che non conoscevo, il nostro dialetto era molto più simile al rumeno e ci consideravamo più rumeni che serbi”. Oggi Milena ha 66 anni e aspetta di andare in pensione. “Mio marito è arrivato per primo a Trieste per fare il muratore ma noi venivamo dalla campagna eravamo contadini. All’inizio tornavamo spesso al paese perché avevamo lasciato nostro figlio dai nonni. Io facevo la lavapiatti in un ristorante importante e non avremmo avuto il tempo di occuparcene” . La svolta di Milena arriva con l’incontro con i proprietari della Stock, storica ditta di liquori triestina. I “signori” Stock che sono ebrei, abitano a Palazzo Ralli in piazza Scorcola a Trieste, in un enorme appartamento, assumono Milena come colf a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato . “Con la signora c’era un rapporto quasi di amicizia. Lei mi spinse a prendere la patente e la mia famiglia era di casa da loro. Per un mese all’anno i coniugi Stock si trasferivano in Florida e a Milena viene offerta l’occasione di seguire i suoi datori di lavoro in America. “Non dimenticherò mai i bagni nell’oceano Atlantico che facemmo mentre a Trieste era pieno inverno”. Negli anni Milena non è più tornata a vivere nel suo paese dove sono morti quasi tutti i parenti. “Il nostro paese è diventata l’Italia – dice con una forte cadenza triestina punteggiata qui e là di rumeno – a Trieste abbiamo vissuto benissimo e non abbiamo nessuna nostalgia della Serbia”.
Dzemila dal Montenegro: rom orgogliosa di esserlo
Dzemila ha 51 anni ed è venuta in Italia per la prima volta a 3 anni, nel ’69 con i nonni e i genitori dal Montenegro. È una rom ”orgogliosa di esserlo” che di strada in questi anni ne ha fatta tanta dal suo arrivo definitivo a Roma negli anni ’90 quando la situazione nei territori della ex Jugoslavia cominciava a diventare difficile per via della guerra che sarebbe scoppiata da lì a poco dopo. La prima volta la famiglia, genitori e nonni, si sposta in Italia in cerca di un miglioramento delle condizioni economiche, anche se in Montenegro hanno una casa e c’è l’obbligo scolastico assicurato per i bambini. Vivono in Puglia e in Emilia Romagna, si spostano molto spesso con le tende “ogni volta – ricorda Dzemila- bisognava ricominciare tutto daccapo”. Poi il padre ha un incidente sul lavoro e finisce l’avventura italiana. La famiglia fa ritorno al paese d’origine. Alla vigilia della guerra la scelta è obbligata come per altre migliaia di migranti jugoslavi, la famiglia di Dzemila lascia il Montenegro, che già deve fare fronte all’arrivo degli sfollati interni, per mettersi in salvo. Dzemila abita nel campo rom Casilino 900, i fratelli maschi, in tutto sono otto figli, vanno a scuola. “Io no – racconta – perché ero la più grande e dovevo badare ai più piccoli”. Dzemila, quindi, cresce senza un’istruzione, non trova nemmeno lavoro perché per una “zingara” è difficile a priori incontrare qualcuno disposto a concederle la propria fiducia. In più lei indossa gli abiti tradizionali montenegrini, una sorta di “divisa” che innesca una serie di pregiudizi nelle persone. Per una donna era considera una vergogna, secondo leantiche tradizioni del suo popolo, indossare gli abiti dei gagè, cioè non rom. Con l’aiuto di un parroco trova un posto per fare le pulizie in un istituto religioso. “Le suore si sono fidate e mi hanno insegnato tutto, anche a lavare per terra senza allagare il pavimento come si faceva da noi. Poi mi hanno messo in regola con un contratto a tempo indeterminato”. E lei ripaga l’”investimento” delle suore. Il suo cruccio all’inizio è quello di essere analfabeta perché non è mai andata a scuola. Inizia a frequentare un corso serale e scopre di avere una forma di dislessia che le rende ancor più difficile fissare il contenuto delle lezioni. Ma non molla: “ho iniziato ad andare da un logopedista e ho fatto quattro anni di terapia per superare il problema.Nel frattempo prende il diploma per l’italiano B2”. Oggi Dzemila parla il romanè, lo spagnolo e l’italiano ed è diventata mediatore culturale per la comunità rom. È membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione 21 luglio di cui è presidente suo marito, Carlo Stassola, dove si occupa in particolare dei diritti delle donne e dei bambini. Una comunità, a Roma, composta da circa 6 mila persone in gran parte provenienti da Bosnia e Montenegro che fin dai tempi delle migrazioni e a tutt’oggi vive per la maggior parte nei villaggi attrezzati (6) e nei campi “tollerati” (9) di Roma. Una situazione resa ancor più insostenibile dall’emergenza coronavirus – denuncia il rapporto “Tu resti a casa, io resto nel campo” presentato in questi giorni dall’Associazione di cui fa parte Dzemila, perché “negli insediamenti abitativi vivono circa 3.500 abitanti in condizioni di sovraffollamento e in alcuni casi senza acqua e servizi sanitari”.
Adem, la guerra a Sarajevo dai 16 ai 20 anni
Adem è rimasto a Sarajevo. “La guerra – racconta – è una parentesi della mia vita, un’esperienza che certo non vorrei ripetere ma che non giudico del tutto negativamente. Siamo rimasti insieme con la mia famiglia “sul terreno” per resistere a una situazione di assedio che all’inizio non potevamo immaginare si sarebbe prolungata per anni. Avevamo sempre la speranza che in poco tempo sarebbe finito tutto, noi non avevamo voluto e non ci sentivamo responsabili di quella guerra”.Nei primi quattro mesi Adem rimane chiuso in casa. Poi “si rompe il meccanismo di difesa – racconta – e accetti la possibilità di morire, magari colpito da un cecchino per la strada, ci convivi senza rinunciare alla tua quotidianità.Dunque Adem esce di casa, ha 16 anni sa le lingue, l’italiano in particolare, e comincia a lavorare come interprete per i giornalisti inviati sul teatro della guerra. “Ho visto un po’ di tutto – dice con un tono che sembra ormai distante – però le immagini che si sono fissate nella mia memoria sono quelle del colore del sangue rappreso sulla terra e i resti di un cervello spappolato da un proiettile sul muro. Ogni giorno, in quel periodo, valeva una settimana, ma è stato importante per me avere accesso di prima mano alle informazioni, essere testimone di quello che è successo: un genocidio”.Adem è la sua famiglia si salvano e provano a ricominciare a vivere, seguendo ognuno il proprio istinto di sopravvivenza. Lui decide di chiudere con la Bosnia e cerca una borsa di studio universitaria per staccarsi definitivamente dal passato. La trova a Pavia alla facoltà di Economia e Commercio. “Alla fine delle selezioni eravamo rimasti in 5 borsisti, gli altri miei compagni pensavano di fare un’esperienza all’estero e poi di tornare indietro, io sapevo che non sarei mai più tornato a vivere a Sarajevo. Al mio paese avevo già dato tutto quello che potevo nella prima parte della mia vita. Ora ero diventato una persona diversa”.Da Pavia Adem lavora a Milano come portiere di notte in un albergo di terza categoria. Non finisce l’università, comincia a lavorare per un portale multilingue della galassia Mediaset e poi a Vodafone . Apre una partita iva e comincia a espandere la sua attività nel ramo della new economy. Sul lavoro incontra la donna della sua vita, quella che poi diventerà sua moglie e la cui origine pugliese influenzerà il resto della sua esistenza. Oggi Adem ha 45 anni, una figlia Sara che fa la quinta elementare e si sente “forse eccessivamente” italiano dice con accento lievemente pugliese. “Ho vissuto molti più anni in Italia che in Bosnia e i miei ricordi dopo la parentesi della guerra sono tutti qui. Ma quando torno a Sarajevo a trovare mia madre con la mia bambina, scopro i sapori dell’infanzia, rivivo la diversa modalità nel passare il tempo insieme e so che le mie radici appartengono a quella terra”.
Boban, il barese balcanico
Slobodan 60 anni, che gli amici conoscono come Boban è un serbo di Belgrado. È il producer del pool della Rai che all’epoca della guerra seguiva le fasi del conflitto per i tre telegiornali. “I giornalisti cambiavano ogni due settimane – racconta – ma il mio ruolo era “senza turni” perché dovevo coordinare tutta la logistica”. All’inizio della guerra Boban scappa in Italia, a Bari. “Non avevo proprio voglia di combattere contro quelli che consideravo miei fratelli: avevo amici croati, bosniaci, musulmani. Come avrei potuto pensare di sparargli addosso? In Puglia Boban diventa “barese” per tre anni e mezzo. Si immerge negli usi e costumi di quella terra che impara ad amare. “In quegli anni era pieno di profughi dell’Albania ma la gente era accogliente e allegra, io mi sentivo come a casa mia”.Si crea una rete di amici “incredibile”, impara l’italiano parlando con loro, senza mai andare a scuola. Cambia la sua dieta e inizia ad apprezzare la burrata e tutti i latticini pugliesi, cucina seguendo le ricette delle massaie di Bari. Poi arriva la proposta della Rai di occuparsi professionalmente, come producer, della guerra per raccontarla. “Parlai con i miei genitori, avevo 30 anni, e loro condivisero la mia decisione di tornare nella nostra terra, anche se poteva essere pericoloso, ma si trattava di occuparmi del mio paese. In seguito nella mia vita ho fatto tesoro dell’insegnamento dei miei genitori: rispettare sempre l’opinione dell’altro anche quando non sei d’accordo”. Da quel momento Boban si sposta, lui dice “pedalo”, lungo tutto il territorio della guerra. “Per tutti ero il “barese balcanico”come mi aveva soprannominato l’inviato Ennio Remondino. In qualche pausa dalla guerra tornavo a Bari a salutare il mio “mondo pugliese” e al rientro ero pieno di cose buone da distribuire a tutti gli amici di Roma”. Dal ’99 Boban è tornato a Belgrado per seguire sul campo la campagna di attacchi aerei decisa dalla Nato contro la presenza militare serba in Kosovo. Ma se ha amici a pranzo o a cena a casa sua, la cucina è rigorosamente pugliese.
Francesca Cusumano(1 aprile 2020)
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