Donne Migranti e Figlie: chi sono
La Rete di Donne Migranti e Figlie (RDMF) si definisce “Una rete culturale politica che sfida i sistemi interconnessi di oppressione razziale, sessuale e di classe e le eredità della cultura coloniale puntando alla consapevolezza dell’intersezionalità, promuovendo un femminismo decoloniale”. Una realtà creata da e per gli italiani di seconda generazione, e più che mai per le italiane. Le donne migranti e le loro discendenti, soprattutto di origine africana e sudamericana, si incontrano scambiando notizie, consigli, o semplicemente aneddoti di quotidianità legati al vivere in un paese ancora non scevro del suo retaggio coloniale. Al centro del movimento un senso di rispetto reciproco, ma anche di autoironia. Ne è esempio l’incontro del 26 giugno al Parco della Caffarella, presentato come un “pomeriggio di confronto” a seguito della grande manifestazione di Black Lives Matter del 7 giugno.
L’incontro si articola come un grande cerchio sul prato del palco, dedicato al confronto sul tema dell’antirazzismo e di come rapportarsi ad esso. Perché per le donne e le ragazze – ma anche gli uomini – dell’associazione, il razzismo rappresenta un’esperienza vissuta in prima persona, un male quotidiano che si riflette anche negli aspetti più semplici. L’obiettivo diventa quindi a lungo termine un “dare cittadinanza” alle loro storie, formando una rete in cui le problematiche siano raccontate da chi le vive in prima persona.
L’esperienza quotidiana delle donne migranti
Il percorso razzializzato dell’italiano di seconda generazione va avanti sin dalla nascita, soprattutto in assenza della cittadinanza. Per tutta la vita si trova a dover dimostrar di essere il “bravo figlio di migranti”, di obbedire alla legge e alle convenzioni sociali, e non ricadere negli stereotipi imposti dall’esterno e dall’alto. Quello che manca è ancora un senso di identificazione collettiva, un “filo rosso” in comune per “connettersi” tra le varie realtà di minoranza.
Un’altra associazione che opera su questa linea è QuestaÈRoma, determinata ad emarginare la discriminazione di qualunque tipo. Si pensa, erroneamente, che ai membri delle minoranze importi solo “del proprio orticello”. Che le donne possano cioè battersi solo per le donne, gli stranieri solo per gli stranieri, e via dicendo. Mentre all’esterno delle associazioni, le voci importanti anche nelle questioni sociali rimangono rigorosamente di uomini bianchi. Ne è un esempio lampante la discussione sulla figura di Indro Montanelli, di cui in televisione una platea di uomini bianchi ha ricordato la perizia giornalistica e minimizzato le violenze coloniali. Non è stata interpellata una donna, nemmeno bianca, né alcun membro (anche maschio) della comunità nera. Tale stereotipizzazione si espande anche nella rappresentazione mediatica: ad esempio, la donna straniera è ancora prevalentemente ridotta alla rappresentazione di ruoli di prostituta, badante in tutti i film, le serie e le pubblicità. Anche il 2 giugno si è tenuta una manifestazione davanti all’Ambasciata Americana, con una folla di sole donne bianche munite di cartelli di Black Lives Matter.
La mancanza di rappresentazione
Una rappresentazione che si percepisce come mancante anche nelle piazze, incluse le manifestazioni di livello nazionale. Alla manifestazione in Piazza del Popolo tenuta per Black Lives Matter, il focus è stato concentrato sui fenomeni di cronaca e le voci provenienti dall’America. È il razzismo italiano che l’Italia fa fatica ad ammettere, e la controversia legata alla figura di Indro Montanelli non è che un esempio tra i tanti. Una tematica comparsa spesso è legato al nome da attribuire alla fermata della Metro C di Roma, destinata a chiamarsi Amba Aradam. Un riferimento a una strage compiuta dal nostro esercito sul monte omonimo in periodo coloniale.
Si parla quindi di una vera e propria “rivendicazione degli spazi”. Ne è un altro esempio la battaglia dei capelli portata avanti, dopo l’America, anche in Italia. Le donne afroitaliane smettono quindi di lisciare i loro ricci naturali, sfoggiandoli con orgoglio, oppure indossano al lavoro il tradizionale turbante colorato. Si tratta di una ribellione quotidiana quanto lo è per loro il razzismo. Sfida e mette in discussione lo standard di bellezza eurocentrico e l’immagine dei non bianchi nel nostro paese.
Flaminia Zacchilli
(28 giugno 2020)
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