Oltre il rap, cinque canzoni “figlie” delle rivolte arabe

Le “primavere arabe” del 2011 sono state spesso narrate dai media nei loro risvolti politici, ma quello che gran parte dei quotidiani ha raccontato non basta tuttora a capire i profondi mutamenti sociali e culturali che queste proteste hanno generato. Spesso la narrazione si è limitata ad affrontare in maniera superficiale questi eventi, mettendo in luce solo episodi di violenza che dipingono in maniera errata i paesi arabi, che invece sono da anni investiti da trasformazioni complesse che sfuggono a chi si limita a una lettura cronachistica, isolata e frammentaria.

Quest’anno, finalmente, è arrivato nelle librerie Arabpop. Arte e letteratura in rivolta dei paesi arabi (Mimesis editore), a cura di Chiara Comito e Silvia Moresi, arabiste che assieme ad altre esperte del settore hanno raccontato il lato pop e sconosciuto ai più delle giovani generazioni arabe che attraverso la letteratura, la poesia, il teatro, il fumetto, le arti visive, la street art e la musica, sono diventate protagoniste di una lotta culturale contro il potere dei regimi e a favore dei diritti politici e civili e della libertà di espressione.

Oltre il rap: cinque canzoni da conoscere

Il capitolo del libro dedicato alla musica è a cura di Fernanda Fischione, docente universitaria e traduttrice, esperta delle correnti musicali arabe contemporanee.
Fernanda Fischione suggerisce cinque canzoni da ascoltare per chi vuole comprendere la realtà da un punto di vista nuovo e diretto, non mediato dalla narrazione preconfezionata degli osservatori occidentali. Attraverso il richiamo a piccole parti dei testi da lei tradotti, i suggerimenti di Fernanda Fischione aprono una finestra sulla rivoluzione culturale tuttora in atto, rivoluzione che partendo dalle rivendicazioni politiche, è diventata un vero e proprio grido di libertà contro l’oppressione in tutte le sue forme.

  1. Al-Manzouma, 1772

Prima di lasciare l’Egitto come molti altri protagonisti della scena musicale cairota di un decennio fa, Ali Talibab ha preso parte a diversi progetti musicali underground, fra cui quello della band al-Manzouma. Con lo stile cupo e asciutto del suo spoken word, Talibab ha espresso contenuti politici e sociali di una crudezza inedita, soprattutto se si considera il contesto di diffusione della sua musica. 1772, per esempio, contiene versi con riferimenti sessuali espliciti, che nell’Egitto di oggi hanno ancora un impatto molto forte, così come i richiami quasi blasfemi alla religione. L’intero brano è un feroce attacco alla religione usata come “oppio dei popoli”, che impedisce alla gente non soltanto di pensare con la propria testa ma persino di ribellarsi alle condizioni disumane della propria esistenza:

Non dimagrire, non ingrassare, e se mangi non sbrodolare: la pulizia viene dalla fede
Fa’ tesoro di ciò che è dato per certo
Fa’ la persona perbene, sii carino
Anche se sei perseguitato, imbavagliato, paralizzato, impastoiato, fa’ la persona perbene
Anche se sei derelitto, isolato, schiacciato, perso, fa’ la persona perbene
Anche se perdi la tua identità e sei asservito al potere, fa’ la persona perbene
Usa la tua voce per la nazione, ma ricorda che quella dell’imām è sempre più alta
Non mettere incinta nessuna
Non scendere a compromessi riguardo ai punti fermi della massa
Compatisci i poveri, e fa’ in modo che la tua ingordigia sia soddisfatta dall’impossibilità del miserabile di soddisfare la propria
Anche se non hai, non chiedere
Le porte del paradiso non si apriranno per chi ha abusato di te
Distruggi… Sbagliato, non distruggere!

2. El Rass, ‘Ishq/Islamology (‘Passione/Islamologia’)

Il sottotesto di questo brano del rapper libanese El Rass è chiaramente la poesia mistica islamica, di cui vengono recuperati la lingua – il brano è scritto in un arabo classico pieno di reminiscenze coraniche – e l’immaginario onirico e metaforico. Il titolo richiama un concetto-cardine della mistica islamica, quello di ‘ishq, appunto, ossia l’amore totalizzante per Dio. Questo retaggio mistico viene però ripreso per essere rovesciato e veicolare idee profondamente critiche sulla strumentalizzazione della religione per giustificare il mantenimento delle disuguaglianze sociali ed economiche. Il rigore della religione “ufficiale” – quella dei chierici, delle chiese e delle moschee – viene rigettato per abbracciare una visione intima e quasi estatica della religiosità, in cui l’amore e la dignità prevalgono sull’ipocrisia istituzionalizzata:

Le campane delle nostre chiese sono mute
L’adhan delle nostre moschee è sordo
Entrambi glorificano un dio nascosto nelle mascelle del vampiro che ci succhia il sangue
E che tormenta i poveri
E distrugge i sogni dei sapienti
I fiumi del Paradiso scorrono
Solo per chi possiede il certificato di iscrizione
A una commissione dell’“Istituto sciaraitico per l’ipocrisia”
E l’inferno e il suo fuoco sono riservati agli amanti
Da sopra la terrazza della follia
Vi ho rinnegato tutti nonostante tremassi intercedendo per la mia povertà
Ho schiaffeggiato chi mi ha istigato a tagliarmi la lingua
In cambio di un nastro registrato
E di diritti scritti
Quindi falsificate pure ciò che volete
Ma io non elemosinerò da voi la mia dignità
E non abbandonerò mai la mia religione ebbra

3. Maryam Labidi, Lan namout (‘Non moriremo’)

Si tratta di una delle tante versioni musicali della poesia La strada verso la cella del poeta palestinese Mu’in Bseiso (1926-1984), uno degli esponenti di punta del Partito Comunista palestinese. Bseiso visse la maggior parte della propria vita in Egitto e si laureò all’Università Americana del Cairo nel 1952. Morì a Londra a seguito di un attacco di cuore. Bseiso compose La strada verso la cella negli anni ’50, mentre era detenuto in una prigione egiziana. La poesia è stata musicata e interpretata da diversi artisti di tutta la regione araba, tra cui la tunisina Maryam Labidi, che la ripropone sulle nostre pagine. Nel corso degli anni, Lan namout è diventata una canzone di protesta molto popolare, che celebra la resistenza ai soprusi e alla violenza di tiranni e persecutori in ogni luogo e in ogni tempo:

No, non moriremo
Ma estirperemo la morte dalla nostra terra
No, non moriremo
Ma estirperemo l’ingiustizia dalla nostra terra
No, non moriremo: noi vivremo
Anche se le catene dovessero mangiarci le ossa
Anche se le fruste dei tiranni dovessero farci a brandelli
Anche se dessero fuoco ai nostri corpi
No, non moriremo

4. Mashrou’ Leila, Imm el-jacket (‘Quella con la giacca’)

 

La band libanese Mashrou’ Leila è stata forse l’unica in grado di superare i confini del proprio paese di provenienza per diventare un fenomeno non solo panarabo, ma addirittura globale. I concerti della band vanno regolarmente sold out, anche grazie all’irresistibile carisma del frontman Hamed Sinno, omosessuale dichiarato e attivista LGBT. Pur restando musicalmente nell’alveo di un pop fresco e accattivante, i brani della band hanno testi impegnati, che affrontano tematiche politiche e sociali di scottante attualità. La canzone Imm el-jacket, per esempio, è apparentemente un breve bozzetto che descrive una ragazza che viene scambiata per un maschio a causa del proprio modo di vestire. Il brano, però, nonostante la sua estemporanea levità, apre tutta una serie di suggestioni gender-fluid, dipingendo con poche ma eloquenti pennellate una “mademoiselle” che gioca con la propria identità di genere.

Indossavi giacca e pantaloni, in piedi sul balcone
Ti ho presa per un ragazzo, mademoiselle. Scusami, pardon!
Ti ho vista indossare baschi e berretti, andare al mercato con i vestiti di casa
Senza cipria, senza trucco, con i capelli tagliati à la garçonne
Ti ho presa per un ragazzo, mademoiselle. Scusami, pardon!

5. Luka, Hashrab hashish (‘Fumo hashish’)

Luka, frontwoman della band egiziana Do3souqa, ha scritto questo brano per la colonna sonora del documentario The thread and the wall (2015), che esplora la condizione della donna egiziana attraverso il progetto WOW (Women On Walls). La canzone dà una rappresentazione piuttosto irriverente delle giovani donne egiziane. Schiacciata da mille divieti familiari e regole sociali, nonché dalla ristrettezza di vedute di altre donne “gente che non ha in testa nient’altro che matrimoni e mobili, porcellane, ori, lenzuola e tende”, la protagonista del brano, per tutta risposta, fuma una canna:

Mia nonna diceva che le bambine devono indossare la gonna
Mia madre diceva che le bambine non possono giocare nel fango
Mia zia, quella che porta il velo, mi diceva: “Canta pure, tanto finisci all’inferno”
Mio padre invece non mi diceva niente
E allora faccio quello che è giusto e fumo hashish

Queste e molte altre canzoni con i testi tradotti sono contenute all’interno di Arabpop, nel capitolo dedicato alla musica, un vero e proprio viaggio musicale che non solo analizza, ma catapulta il lettore nelle atmosfere underground di una realtà in fermento.

Elisabetta Rossi
Commenti alle canzoni
e traduzione dei testi:
Fernanda Fischione
(14 ottobre 2020)

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