SAI, ex-SIPROIMI ed ex-SPRAR: come cambia l’accoglienza

SAI
Giovane rifugiato. Foto di fsHH da Pixabay

SAI, Sistema di accoglienza e integrazione, è l’acronimo che indica il nuovo sistema di accoglienza previsto dal D.L. 130/2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 21 ottobre scorso e i cui emendamenti sono ora in discussione alle Camere. Il SAI sostituisce il SIPROIMI, introdotto dal primo Decreto Sicurezza nel 2018, che a sua volta aveva rimpiazzato il modello SPRAR.
A queste modifiche nomenclative corrispondono diverse modalità di intendere l’accoglienza, che allargano o respingono le maglie dei possibili beneficiari. Se ne è discusso nel corso della due giorni di formazione online
Le trasformazioni del D.L. 130/2020 organizzata da Indeep, ASGI, CAIT e dal Master sull’immigrazione dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Due diversi livelli di accoglienza

Il modello SAI tende a ricalcare quello degli SPRAR, Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, reintroducendo la possibilità per i richiedenti asilo di accedere ai percorsi della seconda accoglienza, in un’ottica inclusiva e richiamando il precedente modello virtuoso di accoglienza. Con le modifiche apportate dal D.L. 113/2018, meglio noto come primo Decreto Sicurezza del 2018, lo SPRAR è diventato SIPROIMI, Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati, comportando l’esclusione dei richiedenti asilo.

L’art. 4 del D.L. 130/2020 che introduce il modello SAI, che pure intende riavvicinarsi al modello SPRAR, prevede due livelli differenziati di erogazione dei servizi:

  • primo livello, destinato ai richiedenti asilo cui sono destinati “prestazioni di accoglienza materiale, l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale e psicologica, la mediazione linguistico-culturale, la somministrazione di corsi di lingua italiana e i servizi di orientamento legale e al territorio”;
  • secondo livello, destinati ai titolari di protezione internazionale e “finalizzati all’integrazione, tra cui si comprendono, oltre quelli previsti al primo livello, l’orientamento al lavoro e la formazione professionale”.

“La ragione di questa suddivisione in due livelli non è in alcun modo giustificata sul piano pratico-organizzativo come su quello della finalità generale dell’accoglienza”, spiega Daniela di Capua, ex Direttrice del Servizio centrale dello SPRAR “Risulta difficile comprendere come sarà possibile articolare, nello stesso progetto, i servizi destinati ai richiedenti asilo, da un lato, e quelli riservati ai titolari di status dall’altro. Verranno suddivisi in due diverse strutture? Oppure verranno suddivisi per stanze o piani dello stesso edificio? Se un individuo entra nel progetto come richiedente asilo e poi gli viene riconosciuto lo status, che succede? Viene spostato in un’altra struttura? Senza contare l’impatto psicologico e sulla progettualità di vita dei diversi beneficiari, ad alcuni dei quali verranno offerte più prospettive, mentre altri si vedranno precluse diverse possibilità”.

Il senso dell’accoglienza

L’impatto sul lungo periodo di questa modifica, seppur migliorativa, rischia di non essere efficace. Non soltanto, ancora una volta, la possibilità di integrazione finisce per essere riservata ad una fascia ben precisa di destinatari, ma all’interno di questa compagine verranno a crearsi ulteriori distinzioni. “Ancora una volta i percorsi di integrazione vengono ancorati alla condizione giuridica dei titolari. Siamo ciecamente ancorati al qui e ora dell’accoglienza, che fa perdere completamente il senso dell’erogazione del servizio. Basti considerare che il coinvolgimento dei territori in questa nuova configurazione dei percorsi di integrazione rimane comunque marginale. I destinatari dei progetti restano svincolati dall’ambiente in cui sono inseriti e questo approccio preclude la possibilità di una ricaduta culturale positiva sulla comunità accogliente”.

Il richiamo all’Agenda 2030


Una modalità di intendere l’integrazione che non va affatto nella direzione del motto ‘non lasciare indietro nessuno’ inserito nel preambolo dell’Agenda 2030, il programma d’azione ONU “per le persone, il pianeta e la prosperità” contenente i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, siglato nel 2015 da 193 paesi tra cui l’Italia. “Non è un caso se nell’Agenda 2030 il termine ‘migrante’, con i suoi sinonimi, ricorre nel complesso soltanto poche volte. Non si tratta di un caso, ma è la conseguenza del principio universalista cui si ispira l’agenda, che non fa distinzioni tra cittadini e non cittadini, titolari o non titolari di permesso di soggiorno. L’altro principio cardine è quello dell’approccio olistico, cioè globale, che considera la persona umana inserita all’interno di un ambiente ben determinato e in una rete di opportunità, non come un essere svincolato dal contesto in cui si trova a vivere. Tutto questo viene smentito da questo nuovo modo –  che, in realtà, nella sua impostazione è molto vecchio – di intendere l’accoglienza. Ancora una volta ci accontentiamo di accogliere un po’ di più e un po’ meglio”.

Silvia Proietti
(18 novembre 2020)

 

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