A che punto siamo con le regolarizzazioni previste dal Decreto rilancio di maggio scorso?
- Delle 207.708 domande presentate dai datori di lavoro per l’emersione di un rapporto di lavoro o l’instaurazione di un nuovo rapporto solo 1.480 sono i permessi di soggiorno rilasciati (0,71%) e 13.244 convocazioni devono ancora essere effettuate.
- Solo il 5% delle domande è giunto nella fase finale della procedura. In 40 prefetture non sono state neanche avviate le pratiche per le convocazioni. Il risultato è che 200.000 persone restano ancora sospese nel limbo dell’invisibilità.
- La situazione peggiore si registra nelle grandi città. A Roma su 16.187 domande ricevute nessuna pratica è stata conclusa, quindi nessun permesso di soggiorno.
- Risultati migliori hanno ottenuto le domande di permesso temporaneo presentate direttamente dal lavoratore straniero alla Questura: il 68% delle 12.986 è stato convertito in permessi di soggiorno per lavoro.
È questo il quadro che emerge dal report “Regolarizzazione 2020 a rischio fallimento” che le associazioni promotrici della campagna “Ero straniero” hanno presentato sulla base dei dati ricevuti dal Ministero dell’Interno. Il perdurare della situazione di precarietà è grave anche in considerazione della salute pubblica e della campagna vaccinazioni o della carenza di manodopera nelle campagne.
La denuncia di “Ero straniero” ripropone la necessità di strumenti permanenti per potersi mettere in regola e la predisposizione di canali di ingresso per lavoro, come richiedeva la proposta di iniziativa popolare depositata in Parlamento nel 2017, con 90.000 firme.
Quali procedure prevedeva il Decreto
Per capire appieno i dati sulla regolarizzazione dei migranti introdotta dall’articolo 103 del DL numero 34 del 2020 può essere utile soffermarsi sulle due procedure previste dalla norma.
La prima ha visto in prima linea il datore di lavoro per l’emersione di un rapporto di lavoro irregolare o l’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro con il cittadino straniero:
- ha presentato apposita domanda al Ministero dell’Interno;
- prima di procedere ha dovuto versare un contributo forfettario di 500 euro per ogni lavoratore;
- in caso di sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare con cittadini non comunitari ha dovuto procedere al versamento di un contributo forfettario aggiuntivo dovuto a titolo retributivo, contributivo e fiscale da calcolare in base al periodo compreso tra la data di decorrenza del rapporto e la data della domanda (300 euro per i settori agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse e 156 euro per il settore di assistenza alla persona e del lavoro domestico per ogni mese o frazione di mese).
La procedura di domanda è stata aperta il 1° giugno, ma solo il 7 luglio 2020, a un passo dalla prima scadenza fissata – 15 luglio poi prorogata al 15 agosto – con un Decreto interministeriale sono stati fissati i valori di riferimento: il datore di lavoro che aveva già presentato domanda, quindi, ha dovuto provvedere a un nuovo versamento per perfezionare la richiesta di regolarizzazione.
Per i passaggi successivi, poi, è la prefettura che ha un ruolo attivo e deve convocare il datore di lavoro e il lavoratore per sottoscrivere il contratto di soggiorno.
La seconda modalità ha visto in prima linea i cittadini stranieri titolari di permesso scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno, che hanno lavorato in uno dei settori indicati dal decreto e hanno potuto chiedere il rilascio di un permesso di soggiorno presentando apposita domanda e versando un contributo pari a 130 euro.
C’è una profonda differenza tra le due vie percorribili, sia in termini di costi che di semplicità di procedure, e non a caso i dati registrati sono molto diversi: con la prima modalità le domande andate a buon fine sono il 5%, nel secondo il 68%.
Resta comunque il fatto che i risultati del Decreto sono deludenti.
Secondo Silvia Dumitrache, presidente di ADRI, Associazione Donne Romene in Italia, il flop delle regolarizzazioni era prevedibile: “Io non ho mai nutrito grande fiducia nei provvedimenti nati nella logica dell’emergenza e quindi neanche nel Decreto di maggio, perché non affrontava il problema di fondo, cioè che gli stranieri sono innanzitutto persone che lavorano, svolgono attività necessarie alla collettività, quindi sono titolari di diritti e doveri in quanto parte di quella collettività.
Ma il problema della precarietà, del lavoro in nero, dell’illegalità non riguarda solo gli stranieri, bensì tutti gli italiani; il flop delle regolarizzazioni fa emergere l’incapacità della politica italiana di procedere sulla strada di un Paese civile, rispettoso dei diritti e delle regole!”
All’indomani del Decreto in molti, anche i sindacati delle categorie interessate, avevano giudicato il Decreto come un decisivo passo avanti; secondo la Dumitrache, invece, “l’unico aspetto positivo è stato quello di far capire all’opinione pubblica l’importanza di questi lavori, essenziali ma non riconosciuti. Se si fermasse il lavoro di cura – che include badanti, lavoratori domestici, assistenti sanitari dentro e fuori degli ospedali, insegnanti e altri – e quello agricolo, si ferma l’intera società e l’economia. Questo sì che è un passo avanti, ma per cambiare davvero le cose i presupposti sono: che cresca la coscienza dei lavoratori e che la politica si misuri davvero con la realtà, agendo in modo coerente con la tutela dei diritti della persona. Il punto di partenza è riconoscere, anche economicamente, il valore che ha il lavoro di cura, compreso quello che fanno le donne in casa, dato per scontato e quindi gratuito. Si tratta di una questione culturale, che non riguarda solo gli immigrati”.
Il ruolo delle donne nel cambiamento
Il problema dell’emersione del lavoro irregolare pone, quindi, la duplice questione della crescita culturale e civile dell’intero Paese e della crescita di consapevolezza nelle donne del proprio ruolo.
“Le donne – dice Silvia Dumitrache – hanno un ruolo determinante perché il lavoro di cura è soprattutto femminile. La sua centralità nella società e nell’economia oggi, con la pandemia, è resa più evidente. Nel Recovery Plan bisognerebbe prevedere sostanziali finanziamenti al lavoro di cura e mettere al centro della politica le donne. Ma questa è una battaglia che devono fare soprattutto le italiane e gli italiani, nella prospettiva di una società inclusiva in cui tutti possano vivere meglio, perché le straniere è vero che, spostandosi dai loro Paesi, acquisiscono conoscenze e cultura, quindi si emancipano, ma non possono determinare un cambiamento della politica, anche perché non votano; però possono, e devono, partecipare a un movimento di cambiamento”.
Luciana Scarcia
Elio Diodato
(8 marzo 2021)
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