Caporalato: 26 clan criminali nel business agroalimentare

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Dopo la tragica morte di Camara Fantamadi, bracciante agricolo di 27 anni, è stato vietato in Puglia il lavoro nei campi sotto il sole dalle 12,30 alle 16 fino al 31 agosto. Intanto nel Pavese un imprenditore agricolo è stato indagato dopo la morte sospetta di un bracciante di nazionalità cinese. Perché in Italia si continua a morire di fatica e cosa si potrebbe fare per evitarlo? Quali sono i traffici che legano la criminalità organizzata al business miliardario del settore agroalimentare e cosa si sta facendo per fermare il caporalato? Intervista a Marco Omizzolo, sociologo Eurispes e docente della Università La Sapienza.

Uomini e donne sull’orlo costante di un’infarto

Perché in Italia i braccianti continuano a morire?

“In Italia, così come in molti altri Paesi, nel corso degli ultimi 30 anni si è determinata un’inversione nei rapporti tra lavoro e sistema di produzione, attraverso riforme che sono andate nella direzione di rafforzare il ruolo del sistema di impresa, emarginando così diritti sindacali e del lavoro”, afferma Omizzolo. “Proprio oggi [28 giugno 2021, ndr], ho postato su Facebook un video in cui si documenta il lavoro nelle campagne pontine alle 13:20. Vi era una squadra di braccianti indiani che stava lavorando senza alcun genere di protezione. Avevano percorso 20 km dal loro luogo di residenza per giungere sul posto di lavoro. Si tratta di uomini e donne che sono sull’orlo costante di un infarto. In Italia vi è un sistema culturale, di interessi e politico che non vuole rendersi conto di tutto questo. Occorrerebbe invece ricostruire un rapporto dialettico tra imprese e lavoro, rimettendo al centro del dibattito il tema dei diritti umani e democratici. Ma per fare questo è necessaria una nuova consapevolezza e coscienza politica, che oggi è in corso di formazione. Io credo che il percorso in questo senso sia ancora drammaticamente lungo”.

Ventisei clan criminali nel business agroalimentare

Quali sono le ramificazioni della criminalità organizzata nel business agroalimentare?

“Secondo l’ultimo rapporto di Eurispes, il business delle agromafie è complessivamente di circa 24,5 miliardi di euro ed è in continua crescita”, prosegue Omizzolo. “Una cifra paragonabile a una finanziaria di un Paese importante come l’Italia. Una somma che ogni anno è prodotta e nel contempo resta nella disponibilità di agro-mafiosi. Ventisei sono i clan criminali direttamente interessati a questo fenomeno così ampio da coinvolgere non soltanto la filiera della produzione agricola, ma anche quella della distribuzione, della grande distribuzione e della logistica dei grandi mercati ortofrutticoli italiani ed europei. Da parte delle organizzazioni criminali vi è una capacità che non è soltanto economica, ma che è anche in grado di gestire relazioni con alcune delle libere professioni di questo Paese: avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, consulenti agrari, ragionieri troppo spesso aiutano a riciclare denaro o a gestire in maniera sistemica business criminali. Io stesso, lavorando da infiltrato nelle campagne pontine, mi sono trovato dinanzi a ‘padroni’ che erano anche padrini, ad aziende agricole che avevano anche lo scopo di riciclare denaro, che erano il centro di un grumo di interessi, anche mafiosi, molto ramificati e molto diffusi, fino a raggiungere dimensioni globali”.

Quali provvedimenti possono essere presi per contrastare le infiltrazioni del crimine organizzato?

“Ogni provvedimento, se preso singolarmente, non risolverà mai il problema. Per questo è necessaria una riforma del sistema. Bisogna altresì applicare in maniera completa e matura la più importante legge contro lo sfruttamento sul lavoro che abbiamo in Italia: la n. 199 del 2016. Occorre modificare la normativa sulle migrazioni, superando definitivamente il reato di clandestinità e spezzando una volta per tutte il rapporto tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro attraverso la promulgazione di un permesso di soggiorno per ricerca di occupazione. È necessario costruire una nuova cultura dell’abitare, con politiche capaci di superare il ‘sistema ghetto’. Servono più controlli, più avanzati dal punto di vista investigativo e tecnologico per intercettare il fenomeno del riciclaggio del denaro sporco attraverso il sistema agroindustriale. Ovviamente, occorre una tutela integrale di tutti quegli uomini e quelle donne che trovano il coraggio, da braccianti, di denunciare aguzzini e criminali. Con tutela integrale intendo la capacità di prendersi cura di questi uomini e di queste donne. Non fermarsi quindi, come fa lo Stato italiano, a raccogliere solo le denunce, restando indifferenti rispetto a ciò che accade loro il giorno dopo”.

Denunciare gli sfruttatori

Recentemente ha accompagnato in Tribunale Gill Singh Balraj, giovane bracciante agricolo della provincia di Latina che l’anno scorso fu picchiato e scaraventato in un canale per aver fatto richiesta di una mascherina. Come sta oggi il ragazzo?

Gill Balraj ha avuto un coraggio straordinario. La sua denuncia e la sua testimonianza stanno dando un contributo al cambiamento per ristabilire diritti fondamentali. Lui stesso, attraverso l’avvocato Arturo Salerni dell’associazione Progetto Diritti, si è costituito parte civile nel relativo processo, non limitandosi alla sola denuncia. Oggi lavora, anche se a ritmo ridotto, perché i danni di quell’aggressione sono, purtroppo, sinora permanenti. Cerca quindi di barcamenarsi meglio che può. Con il centro studi Tempi Moderni ci preoccupiamo di fornirgli cure, assistenza e sostegno”.

Droga ai braccianti: occorre agire subito

Droga per sostenere i massacranti turni di lavoro: l’aveva già dimostrato nel 2014 con un dossier. Com’è si è evoluta la situazione?

“Il traffico di droga destinato ai braccianti è stato finalmente riconosciuto e certificato da un’operazione straordinaria della Procura della Repubblica e dei Nas dei carabinieri di Latina: l’operazione No Pain. Nel 2014 in molti ci davano dei bugiardi, affermando che fosse tutto falso: una nostra invenzione. A distanza di sette anni quella invenzione si è dimostrata più vera dei nostri peggiori incubi. La realtà, infatti, è molto più complessa rispetto a quando, sette anni fa, vi era prevalentemente l’assunzione indotta da parte dei braccianti indiani di oppio, metanfetamine e antispastici. Oggi, invece, vi è una diffusione di sostanze ancora più pericolose, come l’eroina, che sta producendo overdosi e decessi nei braccianti. Inoltre l’operazione No pain ha rilevato il contributo criminale di un medico e una farmacista, i quali prescrivevano farmaci a base di ossicodone allo scopo di non far sentire ai lavoratori le fatiche legate allo sfruttamento. È necessario introdurre una risposta che sia non solo di investigazione poliziesca, ma anche di servizio sociale e sanitario per prevenire e curare tutti coloro che sono piombati in una drammatica dipendenza”.

Il “mercato” dello sfruttamento

Nel comprare la salsa di pomodoro a 40 centesimi come fanno i consumatori a essere certi di non contribuire allo sfruttamento dei braccianti agricoli?

“Acquistando una passata di pomodoro o di altro genere a 40 o a 30 centesimi, noi contribuiamo al sistema di sfruttamento dei lavoratori in qualità non solo di consumatori, ma di cittadini che scelgono di non acquisire consapevolezza. Per questo l’indicazione del prezzo d’origine di un prodotto risulta oggi fondamentale, così che si sappia se vi è stato il corrispettivo per i lavoratori e le lavoratrici, rendendo tutta la filiera più trasparente. Si potrebbe chiamare ‘etichetta narrante’. Purtroppo neanche questo libererà automaticamente i lavoratori dallo sfruttamento. Ho visto decine di imprenditori, che fatturano milioni di euro l’anno, sfruttare e anche ridurre in schiavitù i loro lavoratori e le loro lavoratrici, nei confronti delle quali a volte ci sono anche ricatti e violenze sessuali. Ricchezza non significa giustizia. Il riconoscimento di un profitto elevato in capo ad un imprenditore non significa automaticamente riconoscimento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Per questo bisogna agire in termini di controlli puntuali e precisi: perché più nessuno, indipendentemente dall’entità del conto corrente del ‘padrone’, possa vivere e lavorare in condizioni di sfruttamento”.

Le responsabilità degli amministratori locali

Nel 2016 ha organizzato lo sciopero di oltre 4mila lavoratori indiani, dopo cinque anni cosa è cambiato per i braccianti e quanto è importante la protesta organizzata per i lavoratori?

Le forme di protesta e di sciopero restano fondamentali, poiché rappresentano non solo la manifestazione di un desiderio di legalità, ma anche l’espressione di un processo di emancipazione che resiste nel corso del tempo. Allo sciopero del 2016 sono seguite altre manifestazioni, occupazioni di aziende, processi. Io stesso ho accompagnato oltre 150 braccianti presso le forze dell’ordine per presentare denunce nei confronti di caporali, trafficanti e proprietari terrieri. Purtroppo uno sciopero non basta, così come non basta una singola legge o interrogazione parlamentare: per cambiare lo sfruttamento lavorativo sono necessari atti e comportamenti da parte sia del legislatore nazionale che delle amministrazioni locali. Se posso essere critico, registro una sorta di delega della responsabilità da parte di tanti amministratori locali, che imputano al Parlamento la responsabilità dello sfruttamento dei braccianti per non vedere le proprie colpe. Nei processi a Latina contro il caporalato presso la Procura della Repubblica, non si è costituita parte civile nessuna amministrazione locale. Questo è un danno grave ed è anche l’espressione o di una volontà politica, o di una incapacità di amministrare”.

Sportelli legali per vittime di sfruttamento

In Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia è stato presentato un Helpdesk Anticaporalato che si rivolge a cittadini di Paesi Terzi vittime o potenziali vittime di sfruttamento lavorativo con supporto multilingua in ambito legale, giuslavorista, sindacale e amministrativo. Si tratta di spazi utili per i lavoratori migranti?

“Qualsiasi azione che possa rappresentare la via d’uscita dallo sfruttamento lavorativo, anche se per pochi braccianti, è utile. Certo si può fare molto di più e molto meglio, a partire da una programmazione che parta sin da principio dalla comprensione delle volontà e delle esperienze dei braccianti stessi. Infatti molti di questi progetti vengono ‘costruiti’ all’interno di uffici a Bruxelles o Roma per poi essere fatti ricadere sui territori: bisognerebbe invertire la tendenza, come con il progetto Dignità-Joban Singh”.

In cosa consiste il progetto “Dignità-Joban Singh”?

“Attivo nella provincia di Latina, Dignità-Joban Singh è uno dei progetti più avanzati contro lo sfruttamento del caporalato che abbiamo in Italia, organizzato dal centro studi Tempi Moderni e dall’associazione Progetto Diritti. Joban Singh è il nome di un bracciante indiano che, in piena pandemia, si vide negata la richiesta di regolarizzazione e che per questo, cadendo in una profonda crisi depressiva, si suicidò impiccandosi. Il progetto porta il suo nome perché possiamo ricordarci sempre quale sia la reale posta in gioco. Dignità-Joban Singh organizza una serie di sportelli legali in cui dare accoglienza agli uomini e alle donne vittime di sfruttamento, italiani e immigrati. Si tratta di sportelli non fissi, ma che seguono i braccianti nei loro luoghi di residenza e nelle loro abitazioni, in una condizione di assoluta non pubblicità per non dare spazio a eventuali criminali di impedire che il progetto continui”.

La regolarizzazione non può passare dal “padrone”

Il provvedimento per l’emersione del lavoro irregolare voluto dalla Ministra Bellanova, art. 103 del Decreto legge n.34 del 19 maggio 2020, era atteso da tempo, ma solo 30.000 sono stati i lavoratori agricoli regolarizzati. Cosa non ha funzionato?

“Quella regolarizzazione era molto importante, ma non è stata articolata correttamente. Non è stato correttamente elaborato, infatti, il processo di emersione dei lavoratori irregolari, il quale prevedeva una eccessiva centralità del datore di lavoro. Ovviamente il datore di lavoro che sfrutta, o che ha sfruttato, una certa persona per vent’anni non ha alcuna convenienza a regolarizzarlo, ma al contrario a tenerlo e trattenerlo in una condizione di ricattabilità. Se l’emersione dal lavoro nero deve passare, come in gran parte successo, per la volontà del datore di lavoro, questa rappresenta una strozzatura, non solo un filtro, riducendo grandemente le domande presentate”.

Chi protegge i criminali?

Il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, a una iniziativa della Cgil, ha dichiarato che la legge contro lo sfruttamento del lavoro, la n. 199 del 29 ottobre 2016, ha una parte che funziona, quella repressiva, e una che andrebbe potenziata nel suo utilizzo, ossia la Rete del lavoro agricolo di qualità. La legge andrebbe modificata?

“Patuanelli dice una cosa corretta: la legge 199 del 2016 funziona nei suoi aspetti repressivi, non in quelli preventivi. La Rete del lavoro agricolo di qualità è un progetto avanzato ma scadente, perché non realizzato territorialmente. I processi di riordino del sistema agroindustriale a livello territoriale, fondati sul raccordo tra categorie datoriali, sindacali e istituzionali, non stanno prendendo piede, io credo, per una volontà politica: nascondere sempre più gli interessi, le pratiche e i comportamenti criminali che generano profitto e potere. Quindi la legge 199 non va cambiata, ma applicata interamente. Anzi bisogna fare molta attenzione, perché l’apertura alla possibilità di cambiare la 199 potrebbe rischiare di produrre una nuova legge contro lo sfruttamento molto meno incisiva della 199 stessa, come per esempio annunciarono il Ministro dell’Interno e il Ministro dell’Agricoltura nel primo governo Conte, i quali invitarono a un cambiamento della legge, ritenendo che non funzionasse. In realtà, una chiara strategia per smontare quella parte della 199 che invece funziona”, conclude Omizzolo.

Vincenzo Lombardo
(30 giugno 2021)

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