Violenza assistita: “testimoni invisibili e inermi”

Una tavola rotonda sul tema della violenza assistita, “Violenza assistita: parliamone”, si è tenuta venerdì 2 luglio presso la Casa Internazionale delle Donne. In una prospettiva multidisciplinare, relatrici ospiti dell’iniziativa, organizzata e moderata da Lucrezia Piva, Responsabile per il sociale dei Giovani Democratici di Roma, sono state l’avvocata penalista Giulia Masi del Foro di Roma, la psicoterapeuta Consuelo Favaron e la mediatrice familiare Sonia Lima Morais, che hanno discusso con le associazioni operanti nel settore e i cittadini interessati.

“Per violenza assistita da minori in ambito familiare si intende il fare esperienza da parte del/lla bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Si includono le violenze messe in atto da minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia, e gli abbandoni e i maltrattamenti ai danni degli animali domestici. Il bambino può fare esperienza di tali atti direttamente (quando avvengono nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore ne è a conoscenza), e/o percependone gli effetti”, è questa la definizione completa elaborata dal Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI), nel 2003, riconosciuta e condivisa tanto in ambito giuridico quanto in ambito psicologico e sociale.

Violenza assistita: abuso in famiglia

Il tema della violenza assistita è complesso e solo in tempi recenti è stato adeguatamente approfondito e considerato. La violenza in famiglia è infatti spesso difficile da rilevare, soprattutto per le vittime silenziose e per i minori testimoni di tale violenza. Nella maggior parte dei casi le donne subiscono abusi da parte dei loro partner e i minori che crescono in questi ambienti patiscono lesioni simili a coloro che la violenza l’hanno vissuta direttamente. Ragazzi che rischiano a loro volta, attraverso processi di emulazione del modello a cui sono stati esposti, di acquisire e di ripetere tali comportamenti diventando possibili attori nella spirale della violenza.

Sia che la violenza si manifesti in forma diretta che in forma indiretta gli effetti prodotti sui bambini sono profondi.
Quando solo il coniuge è la vittima diretta della violenza, i figli diventano vittime dimenticate, il cui dolore causato dall’essere testimoni di violenza risulta essere una realtà effettiva.

Bambina con pupazzo
Bambina che gioca con peluche(foto Pixabay)

Violenza assistita: gli effetti sui minorenni

Per un bambino, assistere a un atto di violenza nei confronti della propria mamma equivale a subirlo direttamente. Molti sono i minori in età infantile e/o adolescenziale vittime di questa violenza silenziosa, che non lascia tracce fisiche evidenti, ma conseguenze, a breve e a lungo termine che rischiano di compromettere molteplici aree di sviluppo: ritardi nella crescita, dallo sviluppo fisico psicomotorio ai difetti visivi; ritardi cognitivi e delle capacità intellettive; perdita di autostima, di empatia; stato generale e persistente di ansia e di paura, sensi di colpa di rabbia e tristezza dovuti a un senso costante d’impotenza; depressione all’incapacità di socializzare con i propri coetanei e di formare e mantenere relazioni sociali, sono tutti effetti sul comportamento del bambino esposto alla violenza.

Violenza assistita: minori stranieri non accompagnati

Vittime impercettibili, da considerare attentamente quando si affronta il tema, sono i minori stranieri non accompagnati: si tratta di bambini o adolescenti, provenienti da diversi Paesi, che arrivano soli sul territorio nazionale, soggetti particolarmente fragili e vulnerabili, e che non di rado hanno subito forme di violenza psicologica, fisica o sessuale, spesso durante il viaggio migratorio o nel tempo antecedente.

“Si parla di estensione del concetto di violenza assistita in riferimento ai minori stranieri non accompagnati in quanto sembra apparentemente un paradosso definire un minore privo di riferimenti parentali una vittima di violenza assistita ed è per questo che i segni impercettibili di questo maltrattamento sono ancora più complessi da riscontrare” spiega Rodolfo Mesaroli, direttore scientifico di CivicoZero, presente fra gli ospiti in platea.

L’ampliamento del concetto stesso di famiglia e dalla componente esperienziale e pervasiva vissuta durante il tempo di migrazione genera una riflessione sul tema della famiglia, infatti nei momenti in cui il minore viaggia senza il nucleo familiare è facile che siano i suoi compagni di viaggio ad assumere questo ruolo. Spesso si sviluppa con essi un imprinting tale che il legame di sangue e di affettività viene ampliato alla significatività della relazione, il senso di appartenere a qualcosa e la necessità di far parte di qualcosa. A questi si aggiunge un numero considerevole di ragazzi che arriva qui solo perché ha perso la famiglia lungo il viaggio, nuovamente spettatori impotenti di violenza reiterata. La domanda che produce questa riflessione è se sia realistico parlare di violenza assistita laddove la vittima sia un compagno, considerato dal testimone invisibile un fratello.

Questi bambini e ragazzi hanno spesso dei vissuti di esperienza di violenza diretta aggravata, si parla di arruolamento di bambini-soldato, di abusi sessuali, di vittime di tratta, e questo rende la violenza indiretta una forma di abuso marginale. È fondamentale mettere a fuoco anche questa dimensione, non è rilevante solo l’abuso più grave e, se assente, non è altresì detto che il minore stia bene, in quanto è sostanziale anche ciò che apparentemente risulta essere invisibile. Fare un’analisi approfondita dei ragazzi per comprendere il loro trascorso e per capire come questo interferisca nel vissuto attuale è essenziale in un’ottica di “reinserimento sociale” e di qualità della vita.

“Hanno bisogno di ripensare il loro percorso, di scardinare la cronicizzazione dei traumi vissuti. Non è un processo automatico, deve essere un’analisi completa, senza tralasciare nulla, a partire dalla componente identitaria, in quanto questo tipo di violenza così profonda destabilizza completamente l’io”. “È infatti impensabile”, continua Mesaroli, “curare l’esterno senza fare un percorso interiore sostenibile e di rielaborazione perché è facile tornare nella dimensione precedente di “assuefazione alla violenza”, in cui questa entra a far parte dell’ordine naturale delle cose”.

“La reiterata esposizione a forme di violenza assistita provoca nella vittima un persistente senso di alienazione e di dissociazione che rischia di cristallizzare questa passività e il ruolo di vittima che vanno a definire il funzionamento psichico e comportamentale del minore non accompagnato. Il mantenimento di questo assetto passivo, porta il soggetto a diventare potenziale vittima delle situazioni che si troverà a vivere”.

Motivo di attenzione è la paura che accompagna questi ragazzi di finire nelle “maglie della giustizia” qualora denunciassero temendo per il loro futuro e facendo venire meno l’esigibilità del diritto. La condizione di “sopravvissuto” e non vittima diretta, non risparmia dal fardello di essere stato testimone inerme. Il sentirsi sfiorati dalla violenza senza esserne colpiti direttamente induce questa interpretazione per la quale il minore si sente in una dimensione di “privilegio”, sostenendo come strategia di sopravvivenza la negazione dell’evento. Il rischio concreto è che si entri in uno status di “impotenza appresa” dalla quale è difficile discostarsi.

Elisa Galli

(7 luglio 2021)

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