Refugees Fashion Show, una passerella di vita e di moda

Blessing Tonny (Nigeria), Pelagie KabangaMadilou (Nigeria), Roland Hilaire Yachun Njiki (Camerun), Amani Abdelrhaim Adam (Somalia), Charity Raphael (Nigeria), Emmanuella Amidu (Nigeria) e Fadhi Abdillahi Abdisarak (Somalia) sono alcuni dei ragazzi che venerdì 15 ottobre, presso il padiglione 17 dell’Ospedale Santa Maria della Pietà, hanno sfilato mostrando le proprie produzioni di gilet alta-moda, camicie a lavorazione industriale, pantaloni prêt-à-porter e giacche coloratissime al Refugees Fashion Show.

La sfilata è stata l’evento conclusivo delle prime due edizioni del percorso di acquisizione di specifiche competenze nel settore dell’alta sartoria, del design e degli abiti su misura nell’ambito del progetto FARI 2. Destinatari del progetto i rifugiati vulnerabili, vittime di tortura e violenza intenzionale, presi in carico dall’équipe multidisciplinare SAMIFO (Centro Salute Migranti Forzati) con l’obiettivo preciso di un percorso di accoglienza ed inclusione sociale mirato all’autonomia degli assistiti.

Presentazione Refugees Fashion Show

Maria Maiani, la direttrice della MAM Maiani Accademia Moda, racconta il processo formativo dietro le creazioni presentate al Refugees Fashion Show, “sono stati sei mesi di formazione intensa per i ragazzi, che nei loro paesi di provenienza facevano ben altro, qui, con questo progetto, sono venuti a riqualificarsi con la moda e non è stato semplice mettergli in mano un tessuto, un ago, un centimetro e farli lavorare. Anche per gli insegnanti non è stato semplice in quanto anche per l’accademia è stata una prima volta, una sfida”. Questa giornata rappresenta la conclusione di un percorso denso, formativo e professionalizzante, una sfilata di moda, una passerella di vita, con tante storie vere, da conoscere ed ascoltare, attraverso il lavoro fatto gli autori delle opere sfilano individualmente o accompagnati da modelle. Nello specifico il programma è stato suddiviso in due corsi: nel primo corso sono stati inseriti 6 rifugiati di cui 4 donne provenienti da Nigeria e Congo e 2 uomini provenienti da Camerun e Togo di età compresa tra i 20 e i 40 anni. I partecipanti al secondo corso sono invece 7 rifugiati, 5 donne provenienti da Somalia e Nigeria e 2 uomini provenienti da Eritrea e Somalia, tutti hanno sfilato con fierezza mostrando il proprio talento espresso in pantaloni, camice e gilet sartoriali e ricevendo il sostegno e il calore del pubblico.

Raffaella La Rocca, docente di Fashion design, ha presentato il processo creativo che grazie al progetto Fari 2 – Asl Roma 1 il corpo docenti del MAM ha potuto esprimere, ponendo alla base del loro lavoro parole come etica, contaminazione, inclusione, accoglienza e collaborazione, nei due corsi proposti ai giovani rifugiati. “Attraverso la creazione di giacche costruite con la combinazione di una tipologia di tessuti africani: WAX e tessuti maschili come gessati, tartan, spigati da sempre sinonimo della moda classica occidentale, siamo riusciti ad ideare primo e a realizzare poi, questi capi che hanno un significato non solo estetico ma anche concettuale: il dialogo tra due continenti viene esplicitato”, racconta La Rocca presentando la sfilata collezione giacche che ha visto i designer sfilare accanto alle modelle indossatrici.

Roland e l’acquisizione di competenza

Emozionato e con un italiano traballante Roland prende il microfono ed esprime la sua gratitudine all’opportunità di essere stato parte di questa esperienza.
“Quando sono arrivato qui, in Italia, mi sono sentito perso perché non sapevo che strada prendere non sapevo cosa avrei potuto fare, chi sarei potuto essere. Questo progetto ha cambiato la mia vita, mi ha dato la possibilità sia di costruirmi un futuro ma soprattutto di vederlo un futuro. Oggi sono fiero perché posso camminare con la schiena dritta, sono felice di quello che posso e potrò realizzare grazie a questo progetto. Oggi noi siamo felici grazie a questa opportunità. Il vestito che indosso l’ho fatto io e sono fiero del mio lavoro e grato per l’esperienza vissuta”.

Roland Hilaire Yachun Njiki

Emmanuella Amidu si racconta

Emmanuella è arrivata in Italia, a Lampedusa, nel 2015, su un barcone proveniente dalla Libia dove aveva trascorso 2 mesi in un campo di prigionia. Ricorda che è stato un viaggio terrificante e mosso dalla disperazione, un appuntamento con quella che sembrava dover essere una sentenza di morte o in Libia o in mare. Le era stato detto che sarebbe stato un viaggio di 30 minuti, che l’Italia era vicina, a portata di mano ma sappiamo bene che la storia e l’epilogo di molte di queste traversate è spesse volte diversa.

“In Libia ho conosciuto una ragazza che si è offerta di aiutarmi a pagare il viaggio tramite una sorella che ha in Francia, io ero disperata e mi sono fidata senza pensare alle conseguenze e così, dopo la traversata, sono arrivata in Sicilia. Qui sono stata in un campo profughi a cielo aperto, avevo 18 anni, un “campo per bambini” lo definirei, un posto terrificante. A Lampedusa ho ritrovato questa persona che credevo mia amica ma alla quale, per il viaggio, dovevo 22.000€ che io non avevo. Lei si è approfittata di me, della mia situazione, era già in contatto con un gruppo di persone che fanno prostituire le ragazze e mi ha portata, dal campo, direttamente in strada, dove io non volevo andare, a vendere il mio corpo per ripagare il debito. La prima settimana è stata molto difficile avevo paura e non sapevo che cosa dovevo fare.  Ho avuto anche dei problemi con altri gruppi di ragazze specialmente rumene che si trovavano nello stesso territorio. Per le mie prestazioni guadagnavo 150€ di cui a me ne restavano solamente 50€. Erano i soldi con i quali dovevo pagare l’affitto, la spesa, i vestiti e tutte le necessità di una persona. Ho trascorso un anno in questo modo e quando ad un certo punto, stanca di condurre una vita di questo tipo, ho chiesto di guardare nei “libri contabili” quanto debito fosse stato ripagato e quanto residuo restasse, sono stata ostacolata, non mi volevano lasciare andare via mi dicevano che non avrei mai potuto restituirgli i soldi con un lavoro normale. Io allora sono scappata”.

Emmanuella Amidu

Emmanuella in Sicilia ha vissuto il dramma della prostituzione e dell’abbandono dal quale è riuscita ad uscire con le sue sole forze e voglia di riscatto di vita. Il suo viaggio non si conclude in Sicilia Emmanuella si sposta a Roma. Alla stazione Termini dorme nel negozio di un’amica e si ritrova qui senza soldi e senza lavoro, invisibile alla società e abbandonata dal sistema. Trova una sistemazione con sua sorella a Valmontone e qui vive il dramma e la paura di dover ritornare in strada perché non riusciva a trovare un lavoro e ad avere i soldi per mantenersi. In questo contesto arriva il covid-19 e Emmanuella viene a conoscenza dei “buoni spesa” ai quali lei tuttavia non può accedere in quanto non residente. Incontra però una donna che le suggerisce di rivolgersi al Centro Astalli.

“La donna mi ha dato l’indirizzo ed io ho preso mia sorella e sono andata lì, qui ho incontrato Cristiana e, una volta che ho messo i piedi dentro al centro, ho capito che la mia vita sarebbe stata diversa. Qui mi sono sentita accolta, sono stata aiutata, in certo senso presa per mano e introdotta ad un nuovo futuro. Tramite il Centro Astalli sono entrata a far parte del progetto Fari 2, ho conosciuto l’Accademia MAM, tutti gli insegnanti e tanti amici. Mi sono sentita di nuovo a casa, ho stretto legami importanti, la direttrice Maria non mi ha fatto soffrire la mancanza di mia madre e mi sono sentita di nuovo a casa. Grazie a tutti loro che mi hanno sostenuta e al mio lavoro ho ottenuto un tirocinio di tre mesi nella moda e oggi posso dire che se anche non ho certezze sul domani sono consapevole che una vita migliore è possibile per me e per mia sorella”.

 Elisa Galli
(19 ottobre 2021)
Fotogallery: Elisa Galli

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