Come nasce Karalò
Quando il 7 settembre 2013 un corteo ha occupato le ex Officine Piaggio ha preso vita Communia ”uno spazio sociale di autorganizzazione e mutuo soccorso, laboratorio per l’autoproduzione fuori mercato e la cultura indipendente”. Bulloni, candele, resistenze hanno lasciato il posto a stoffe, aghi e fili di cotone da una parte e libri, appunti e quaderni dall’altra: una sartoria e un’aula studio. “Karalò è un progetto nato 3 anni fa con un gruppo di richiedenti asilo, per farlo nascere abbiamo organizzato cene di autofinanziamento e il sostegno del territorio è fondamentale”, spiegano a Communia. “Adesso li aiutiamo solo con la ricerca dei contatti: ad esempio siamo entrati nella rete Fuori Mercato, che riunisce una serie di esperienze simili alla nostra in Italia. Poi fanno tutto da soli”.”Siamo tre sarti in questo momento, eravamo in 5 ma due ragazzi sono appena partiti, sono andati in Francia e in Spagna”, dice Amadou. Sono tanti i fattori che determinano il turn over e la partenza è uno di questi. “Bisogna considerare che molti di loro arrivano in Europa anche con un mandato preciso dalle famiglie: sostenerle inviando dei soldi a casa. Hanno cercato dei lavori o dei tirocini qui, ma non hanno ottenuto buoni risultati. È complicato anche solo trovare delle opportunità che gli permettano di vivere a Roma dignitosamente“, aggiunge Sara* di Communia.
Una moda fatta con le mani
Sono creazioni imprevedibili quelle di Karalò. Un bottone vintage chiude uno scalda collo col cappuccio oppure sullo stesso capo un tweed serioso convive con una sgargiante stampa africana. In questo atelier del quartiere San Lorenzo, mezzo chilometro quadrato in cui vivono 1.214 stranieri, la moda nasce direttamente dalle mani e dal confronto, non esistono schizzi e modelli. “Spesso guardiamo un capo su internet e cerchiamo di farlo uguale. Usiamo Youtube per imparare tecniche del mestiere che non conosciamo. Prima di metterci a cucire discutiamo su come realizzare una gonna, un gilet, un vestito o su come combinare i colori”. È un laboratorio nel senso classico del termine, si lavora in sinergia e si impara insieme, con tutti i mezzi possibili. “Chiediamo spesso consiglio alle ragazze dell’aula studio per sapere se loro indosserebbero i capi che stiamo creando. La moda è anche una questione di cultura: quella senegalese è molto diversa da quella italiana, ma non conosco ancora abbastanza bene l’Italia per dire ciò che le differenzia davvero”.Amadou ha fatto tanti mestieri in quest’anno in Italia e ancora ne cerca, la mattina i sarti seminano per il futuro: qualcuno fa colloqui di lavoro, qualcun altro segue corsi di formazione o di lingua. Una macchina da cucire, lui, non l’aveva mai toccata in Senegal, e ora parla di Karalò con la passione di un progetto che sente suo. Per il momento è un “lavoretto”, anche perché è impossibile provare a stimare i guadagni di un mese. Ma domani chissà: “forse se la gestiamo bene e continuiamo a lavorare con costanza, possiamo diventare una grande sartoria”.
Rosy D’Elia20 febbraio 2018
*nome di fantasiaLeggi anche