Karalò: Amadou e la moda imprevedibile dei sarti migranti

Sartoria Karalò
Sartoria Karalò
All’ingresso della sartoria Karalò, in Via dello Scalo San Lorenzo n.33, non c’è un’insegna, e nemmeno un citofono ma soltanto un cartello e due trombette infilate in un cancello di ferro: “Suonare per entrare”. Nel cortile interno, colorato di graffiti e striscioni, c’è una porta che introduce in un piccolo locale dove Amadou ha appena finito di cucire. Ha 27 anni, dal Senegal è arrivato a Roma per chiedere asilo politico. E mentre aspetta che gli venga riconosciuto lo status di rifugiato, ha imparato il mestiere di karalò, ovvero sarto in lingua mandingo.

Come nasce Karalò

Quando il 7 settembre 2013 un corteo ha occupato le ex Officine Piaggio ha preso vita Communia ”uno spazio sociale di autorganizzazione e mutuo soccorso, laboratorio per l’autoproduzione fuori mercato e la cultura indipendente”. Bulloni, candele, resistenze hanno lasciato il posto a stoffe, aghi e fili di cotone da una parte e libri, appunti e quaderni dall’altra: una sartoria e un’aula studio. “Karalò è un progetto nato 3 anni fa con un gruppo di richiedenti asilo, per farlo nascere abbiamo organizzato cene di autofinanziamento e il sostegno del territorio è fondamentale”, spiegano a Communia. “Adesso li aiutiamo solo con la ricerca dei contatti: ad esempio siamo entrati nella rete Fuori Mercato, che riunisce una serie di esperienze simili alla nostra in Italia. Poi fanno tutto da soli”.”Siamo tre sarti in questo momento, eravamo in 5 ma due ragazzi sono appena partiti, sono andati in Francia e in Spagna”, dice Amadou. Sono tanti i fattori che determinano il turn over e la partenza è uno di questi. “Bisogna considerare che molti di loro arrivano in Europa anche con un mandato preciso dalle famiglie: sostenerle inviando dei soldi a casa. Hanno cercato dei lavori o dei tirocini qui, ma non hanno ottenuto buoni risultati. È complicato anche solo trovare delle opportunità che gli permettano di vivere a Roma dignitosamente“, aggiunge Sara* di Communia.

Karalò
Sartoria Karalò
Amadou sintetizza il lavoro esclamando: “Noi qui cuciamo!”. Poi continua: “Siamo aperti dalle 3 alle 7: ogni giorno appena arriviamo puliamo il laboratorio e poi cominciamo a lavorare”. Karalò è una sartoria autogestita, che vuol dire basata sul senso del dovere e sullo spirito di iniziativa, “non c’è un capo, tutti i sarti sono responsabili del proprio lavoro, e non aspettano che qualcuno indichi loro cosa fare”.L’ex ufficio Piaggio è un magazzino, un negozio e una sartoria: tutto in unico spazio. Sulla destra ci sono i materiali grezzi da lavorare, al centro gli stand con i prodotti finiti e un banchetto con file ordinate di elastici, fasce per capelli e porta tabacco. “Si vendono bene perché costano meno di cinque euro, le persone non vogliono spendere tanto”. A sinistra c’è un pannello che ritrae un manichino di stoffa in un grande atelier, un trompe l’oeil a contrasto con la realtà, e poi la parte di laboratorio con le macchine da cucire tutte diverse, da una Singer di prima generazione a una Necchi quasi nuova. “Ce le regalano”, dice Amadou.“Così anche le stoffe”, e indica lo scaffale colmo di scampoli. “La mamma di un ragazzo che frequenta l’aula studio ha un negozio di tessuti, gli regala le rimanenze e le fantasie che non sono più moda”, precisa Sara. “Quelle africane le compriamo a Piazza Vittorio o ce le portano i nostri amici quando tornano dai viaggi nei loro paesi di origine”, continua Amadou.
Sartoria karalò
Sartoria karalò

Una moda fatta con le mani

Sono creazioni imprevedibili quelle di Karalò. Un bottone vintage chiude uno scalda collo col cappuccio oppure sullo stesso capo un tweed serioso convive con una sgargiante stampa africana. In questo atelier del quartiere San Lorenzo, mezzo chilometro quadrato in cui vivono 1.214 stranieri, la moda nasce direttamente dalle mani e dal confronto, non esistono schizzi e modelli. “Spesso guardiamo un capo su internet e cerchiamo di farlo uguale. Usiamo Youtube per imparare tecniche del mestiere che non conosciamo. Prima di metterci a cucire discutiamo su come realizzare una gonna, un gilet, un vestito o su come combinare i colori”. È un laboratorio nel senso classico del termine, si lavora in sinergia e si impara insieme, con tutti i mezzi possibili. “Chiediamo spesso consiglio alle ragazze dell’aula studio per sapere se loro indosserebbero i capi che stiamo creando. La moda è anche una questione di cultura: quella senegalese è molto diversa da quella italiana, ma non conosco ancora abbastanza bene l’Italia per dire ciò che le differenzia davvero”.Amadou ha fatto tanti mestieri in quest’anno in Italia e ancora ne cerca, la mattina i sarti seminano per il futuro: qualcuno fa colloqui di lavoro, qualcun altro segue corsi di formazione o di lingua. Una macchina da cucire, lui, non l’aveva mai toccata in Senegal, e ora parla di Karalò con la passione di un progetto che sente suo. Per il momento è un “lavoretto”, anche perché è impossibile provare a stimare i guadagni di un mese. Ma domani chissà: “forse se la gestiamo bene e continuiamo a lavorare con costanza, possiamo diventare una grande sartoria”.

Rosy D’Elia20 febbraio 2018

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