Venerdì 1 ottobre 2021, presso Palazzo Merulana, si è svolto il convegno “Rimpatri forzati e tutela dei diritti fondamentali – La rotta del Mediterraneo e le sfide del presente”, organizzato dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. L’incontro è stato l’occasione per affrontare il rimpatrio come realtà, cioè come istituto giuridico di concreta applicazione nelle ipotesi di permanenza irregolare nel territorio di uno Stato, analizzata secondo 3 diverse prospettive: quella degli operatori del settore, quella dei migranti che ne sono destinatari e quella storico-politica.
Rimpatri forzati: tre forme di un istituto in evoluzione
Se è intuitivo il significato della parola rimpatrio, lo stesso non vale per le modalità della sua applicazione, che si articola in 3 forme distinte, tra loro alternative, rispetto alle quali il rimpatrio forzato si configura come ultima via percorribile. La prima e la seconda opzione, infatti, sono, rispettivamente, la c.d. partenza volontaria e il “rimpatrio volontario assistito”, che si caratterizza per la volontarietà del rimpatrio in virtù dell’adesione del migrante ad un progetto di reintegrazione ed assistenza, da svolgersi nel Paese di origine. Proprio in relazione a questo aspetto si riscontra un’evoluzione, nel senso di “un ampliamento, del concetto di rimpatrio, che coinvolge anche quello di tipo forzato: recenti interventi normativi del legislatore comunitario, infatti, hanno esteso la fase di pre-rimpatrio, ma soprattutto hanno ridefinito l’attività di “post arrival” e introdotto quella di “post return”, spiega Tommaso Palumbo – Direttore seconda divisione del servizio immigrazione, Direzione centrale immigrazione e polizia delle frontiere. Si tratta di interventi di supporto immediato per il migrante rimpatriato, che possono andare dalla fornitura o dal finanziamento di presidi sanitari per il trattamento di eventuali patologie, alla definizione e di programmi di sostegno per il soggetto, con l’intento di evitare che il fallimento del progetto di vita individuale si ponga come incentivo al ritorno nell’Unione Europea in modo irregolare.
In questo contesto emerge un dato peculiare: se negli anni la percentuale dei rimpatri forzati effettuati dall’Italia è andata diminuendo per arrivare, nel 2019, sotto il 50% del totale dei rimpatri effettuati, nel periodo 2019-2021, al contrario, si è registrato un andamento in controtendenza. “La percentuale dei rimpatri forzati è arrivata al 66,32% nel 2020 per poi scendere al 65,63% nel 2021”, racconta Palumbo: probabilmente una conseguenza delle restrizioni imposte dagli Stati per fronteggiare la pandemia, che si è tradotta, in pratica, in una resistenza nei confronti di forme di rimpatrio diverse da quello forzato.
Rimpatri forzati: accordi bilaterali tra migrazioni e lavoro
Negli anni, si sono moltiplicati gli accordi bilaterali stipulati dagli Stati per disciplinare il fenomeno migratorio, sebbene il numero dei rimpatri sia rimasto pressochè costante nel tempo. La peculiarità di tali accordi sta nella tendenza dei Paesi a negoziare, parallelamente ad essi, programmi di accoglienza della manodopera straniera, in virtù dei quali il Paese di origine si impegna ad agevolare il rimpatrio una volta scaduto il contratto di lavoro: l’obiettivo è quello di consentire la migrazione per motivi di lavoro, ma attribuendole rigorosamente i caratteri della temporaneità e circolarità. Il risultato è un binomio in cui alla deregolamentazione del mercato del lavoro si accompagna una più intensa regolamentazione dei flussi migratori, “strumento di rafforzamento della centralità dello Stato”, spiega Jean Pierre Cassarino. Ma per il migrante l’effetto è ben diverso: in materia di lavoro, la precarietà del rapporto diventa un ostacolo per l’inserimento sociale nel Paese di destinazione, per la realizzazione delle sue aspirazioni professionali e per l’esercizio di diritti connessi alla qualità di lavoratore. Per ciò che concerne la politica dei rimpatri, la situazione non è migliore: per il migrante, il rimpatrio è una umiliazione, che rende complesso il reinserimento nella comunità di appartenenza e non produce l’effetto dissuasivo rispetto all’immigrazione irregolare sperato dagli Stati: il rimpatrio, infatti, interviene sull’immigrazione irregolare, ma non ne elimina le cause.
Valeria Frascaro
(6 ottobre 2021)
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