- Proseguono gli approfondimenti di Piuculture dedicati alle parole delle migrazioni, nella convinzione che anche il linguaggio e le parole scelte per la comunicazione – non solo mediatica, ma anche nell’ambito più ristretto delle relazioni interpersonali – diano un contributo rilevante alla realizzazione concreta del multiculturalismo.
Extracomunitario: tra storia ed economia
A differenza di quanto potrebbe far pensare l’istinto davanti alla parola “extracomunitario”, le origini dell’espressione vanno rintracciate in un fenomeno più economico e giuridico che di tipo etnico. Lo sguardo va rivolto al periodo 1951 – 1957: è questa, infatti, l’epoca in cui Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo e Olanda stipularono i trattati istitutivi di tre organizzazioni internazionali, ossia la Comunità Europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea per l’energia atomica (Euratom o CEEA) – le progenitrici dell’Unione Europea, venuta alla luce nel 1993 con il Trattato di Maastricht. L’obiettivo alla base dei Trattati era la realizzazione dell’integrazione europea, in particolare in alcuni settori economici e dell’attività produttiva, come si intuisce dai nomi delle neonate organizzazioni. Nel momento in cui nascono le comunità europee, poi sostituite dall’Unione Europea nel 2009, nasce l’idea di extracomunitario, riferita ai Paesi che non hanno aderito al nuovo ordinamento sovranazionale.
Extracomunitario: il significato letterale
Tenendo a mente le origini del termine in analisi, è possibile ricostruirne la natura e comprenderne il significato. Si tratta di una parola composta, formata dal prefisso di origine latina “extra”, che significa “fuori” e l’aggettivo “comunitario”, cioè relativo ad una comunità. Extracomunitario significa, dunque, esterno rispetto ad una comunità, più nello specifico, indica ciò (o chi) che non apparteneva alle Comunità Europee prima, e “che non fa parte dell’Unione Europea” poi, come si evince confrontando le voci “extracomunitario” e “comunitario” dell’Enciclopedia Treccani. L’espressione, in seguito, è divenuta parte del linguaggio comune, nel quale è stata spesso impiegata per identificare, in senso generale, i migranti giunti in Europa dai Paesi asiatici o africani.
Extracomunitario: il piano semantico
Come osserva L’Accademia della Crusca, però, “straniero, così come extracomunitario, risultano semanticamente escludenti in quanto identificano il cittadino come ‘non appartenente’ alla comunità in cui effettivamente vive e lavora”. La correttezza della rilevazione emerge considerando come, proprio nel linguaggio comune, l’espressione extracomunitario sia stata spesso usata con una accezione negativa, divenendo emblema di povertà e di emarginazione, fino a divenire, talvolta, strumento di esclusione; a ciò si accompagna il rischio di una generalizzazione dell’impiego nei confronti di qualsiasi cittadino migrante, arrivando a trascurare, in questo modo, non solo il piano dell’inclusività sociale, ma anche quello dell’esattezza linguistica.
Extracomunitario: il racconto delle migrazioni
Il fatto che le parole, in particolare quelle usate per raccontare le migrazioni, abbiano un peso specifico – che ha come unità di misura la vita degli individui che da quelle espressioni sono definite e si pone quale parametro del livello di integrazione sociale e culturale realizzato entro una società – non è solo una teoria degli accademici. Sono organizzazioni internazionali come l’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), che studiano e affrontano sul campo il fenomeno delle migrazioni – e soprattutto camminano accanto a coloro che le migrazioni sono costretti a viverle – ad aver dimostrato l’importanza di raccontarle con il linguaggio appropriato. È questo quello che testimonia il “vocabolario” fatto di video, parole e immagini realizzato dall’Unhcr per spiegare parole come “apolide” o per far capire la differenza tra “rifugiato” e “migrante” a bambini e ragazzi: in esso, la semplicità delle espressioni impiegate non cede all’inesattezza della definizione. Nella stessa direzione si muove la campagna #ParoleNuove, realizzata dall’OIM: cinque podcast che mirano a far riflettere su come parlare di migrazioni in modo corretto e consapevole, sul piano linguistico e non divisivo, su quello umano, cioè – come spiega Vera Gheno, la sociolinguista che conduce l’iniziativa – “raccontare le migrazioni con le parole che non c’erano”.
Valeria Frascaro
(25 novembre 2021)
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