Per una corretta informazione sul tema delle migrazioni, “occorre un corretto approccio alla materia”, spiegava Carlo Bartoli – Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti – nel suo intervento al convegno dedicato alla trattazione del fenomeno migratorio nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa. “Un corretto approccio”, proseguiva Bartoli, “non significa politicamente corretto”, ma giuridicamente corretto. Ma cosa significa “politicamente corretto” quando si parla di informazione? E, richiamando una espressione che non può essere trascurata nel riflettere sulla comunicazione odierna, cosa si intende per “cancel culture”?
Cancel culture: enciclopedia alla mano
Se la traduzione letterale dell’espressione inglese – composta dai sostantivi “cancel”, che significa “cancellazione” e “culture”, cioè “cultura” – conduce all’intuibile definizione di “cultura della cancellazione”, è certamente meno immediata la ricostruzione della sua nozione. L’Enciclopedia Treccani, collocandola tra i neologismi, spiega la formula come “l’atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento”. Si tratta, dunque, di un meccanismo di responsabilizzazione applicato in relazione a comportamenti o opinioni ritenuti contrari – o, almeno, non coerenti – con i valori dell’odierna società umana. Il risultato è la loro “eliminazione”, che può avvenire in forma preventiva, ad esempio impedendo la pubblicazione di un’opera in considerazione della condotta del suo autore, o in via successiva, cioè come pressione dell’opinione pubblica per ostacolarne o bloccarne la circolazione. Il parametro di valutazione adoperato per questa operazione è la moderna morale sociale, non necessariamente accompagnata o preceduta da una valutazione sul piano giuridico. Esemplare in questo senso può essere la temporanea rimozione, per la raffigurazione di “pregiudizi etnici e razziali”, del film “Via col vento” da una piattaforma streaming – a seguito delle proteste legate alla morte, negli USA, del giovane George Floyd.
Cancel culture: la storia dalle origini ad oggi
L’esigenza di adeguare la società – e, di conseguenza, i modi di esprimersi – ai valori che cambiano non è una novità del XXI secolo. L’idea esisteva già nell’Atene del VI secolo a.C.: si tratta dell’ostracismo introdotto da Clistene agli albori della democrazia. Il termine deriva dal greco “óstrakon” (ὄστρακον), cioè “coccio”, e si riferisce ai frammenti di vasi su cui i membri dell’assemblea popolare della città indicavano il nome del cittadino – generalmente un personaggio pubblico – da “ostracizzare” poichè ritenuto una minaccia per i nuovi valori della democrazia: il destinatario della misura veniva così condannato ad un esilio di 10 anni. La pratica aveva un carattere non giuridico, ma strettamente politico-morale e, nella prassi, vi si faceva ricorso per allontanare dalla città coloro che si facevano portatori di valori non condivisi dalla maggioranza.
Prendendo in considerazione tempi più recenti, le origini del fenomeno si fanno più confuse. Vi è chi le rintraccia a partire da una espressione dello slang cinese dei primi anni del ventunesimo secolo, usata per indicare una attività di indagine e approfondimento svolta da utenti del web su temi di interesse personale; successivamente, l’attenzione di questa ricerca si sarebbe concentrata su soggetti ritenuti non in linea con i valori morali dell’epoca. Altri, invece, ritengono che il primo embrione della cancel culture vada individuato nel #MeToo, il movimento nato nel 2017 per portare alla luce gli abusi di uomini di potere nei confronti di donne sottoposte alla loro influenza o autorità.
Cancel culture: un panorama complesso
Le posizioni assunte da personaggi pubblici in relazione alla c.d. cancel culture sono plurime, sfaccettate, divisive e contrapposte tra loro, ma con punti di contatto talvolta sorprendenti: quello che si delinea è un panorama complesso. In un recente discorso, l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha espresso delle perplessità circa l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti di opinioni o interventi di personaggi pubblici: la tendenza, cioè, alla critica aspra realizzata sui social, se finalizzata unicamente a mettere in evidenza “che non hai fatto qualcosa nel modo giusto, che hai usato la parola o il verbo sbagliato”. C’è stato chi ha messo in evidenza come la c.d. “cultura della cancellazione” sia stata invocata da qualcuno come una sorta di scudo per difendersi dalla pioggia delle proprie responsabilità; e ci sono stati alcuni scrittori e giornalisti – da quelli noti per le loro posizioni progressiste, attente alle questioni dell’integrazione sociale e dei diritti umani, a quelli tradizionalmente più conservatori – che, con una lettera aperta, hanno richiamato l’attenzione sul rapporto tra dibattito pubblico e nuovi valori morali e impegno politico.
Cancel culture: il segno di una rinnovata attenzione
Davanti ad un fenomeno tanto discusso quanto articolato, quello che emerge è una rinnovata attenzione per le parole: un movimento collettivo di riflessione sul significato delle espressioni utilizzate, tenendo conto della loro storia e dell’uso che se ne fa nel linguaggio comune. Si coglie una riscoperta esigenza di appropriatezza del linguaggio e, in ciò, la strada verso una ritrovata consapevolezza per cui “migrante” non significa “rifugiato” e l’uso generalizzato del termine “clandestino” – per indicare indistintamente un minore straniero non accompagnato o chi è in attesa del riconoscimento di uno status – non è “politicamente” scorretto, ma giuridicamente e giornalisticamente scorretto, come sottolineava Bartoli nel citato convegno.
Valeria Frascaro
(2 gennaio 2022)
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