Si è parlato molto, sulla stampa e sui media, dei cinque anni che sono trascorsi dalla firma del Memorandum Italia-Libia, cioè degli accordi che l’Italia ha fatto con la Libia, autorizzando la Guardia Costiera libica a intercettare i migranti e riportarli sulle coste africane. In questo mese di febbraio vi è però un’altra ricorrenza – della quale si parlerà con tutta probabilità meno – su cui vale la pena soffermarsi. Si tratta del caso Hirsi Jamaa accaduto esattamente in questi giorni, ma dieci anni fa: il 23 febbraio 2012 quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver violato gli artt. 3 e 4 del Protocollo n. 4, nonché l’art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Il fatto. Nel maggio 2009 circa 200 persone, somali ed eritrei, che viaggiavano su tre barche verso l’Italia, sono state intercettati dalle motovedette italiane che le hanno trasferite a bordo e poi condotte in Libia e consegnate alle autorità locali. Le tre barche si trovavano a Sud di Lampedusa, in territorio maltese. I migranti erano cioè in zona Sar, ossia aree nelle quali si è tenuti a prestare soccorso.
Sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia
Per capire appieno ciò che avvenne in quel maggio del 2009 è necessario ricordare che nel 2007 l’Italia e la Libia stipularono un accordo per rimpatriare gli immigrati clandestini e a concludere accordi con i Paesi di origine per limitare il fenomeno dell’immigrazione clandestina.
La maggior parte delle persone respinte nel maggio 2009 e approdate in Libia sono state poi recluse in centri di detenzione dove hanno subito violenze e soprusi. Ventiquattro fra le persone intercettate in mare hanno richiesto la protezione internazionale. Da qui, il nome del caso Hirsi Jamaa, nome di uno dei ricorrenti.
L’Italia è stata condannata dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo per aver violato l’art.3, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Secondo la Corte europea, l’Italia ha violato tale principio in quanto in Libia era noto che i migranti sarebbero stati sottoposti a tali trattamenti. In aggiunta, c’era la possibilità che la Libia riportasse alcune di queste persone nel paese d’origine, dove anche in questo caso rischiavano di subire vessazioni e maltrattamenti, che l’art. 3 cerca di combattere. L’Italia si oppose all’accusa avanzata dalla Corte, sostenendo che la Libia non fosse un paese che sottopone i profughi a trattamenti inumani e degradanti. La Corte negò questa tesi ribattendo che la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951.
Questa disputa tra l’Italia e la Corte rimanda all’oggi, in quanto continuano a susseguirsi tentativi – da parte dell’Italia e più in generale dell’UE – di fare della Libia un porto sicuro.
Poi, di particolare rilevanza, vi è anche la violazione, da parte dell’Italia, dell’art. 4 del protocollo 4, il quale vieta le espulsioni collettive degli stranieri. Assume notevole importanza perché l’Italia riteneva di non essere soggetta a sanzioni, in quanto avrebbe agito in mare, in un territorio non sotto giurisdizione italiana. La Corte però ha ritenuto che, secondo il diritto internazionale, in mare si deve applicare la giurisdizione dello Stato a cui appartiene la nave (Stato bandiera). Cioè nel caso Hirsi, la Stato italiano.
La Corte condannò l’Italia a versare 15 mila euro a 22 delle 24 persone (due nel frattempo sono decedute in mare nel tentativo di fuggire dalla Libia) che erano a bordo. La sentenza sul caso Hirsi è storica, e dovrebbe rappresentare un monito, anche per il presente. In quanto, la Corte ha chiarito il principio di Non Refoulement – cioè che nessuno Stato deve respingere un rifugiato verso luoghi nei quali la sua vita sarebbe messa in pericolo – e che non vi sono zone franche, luoghi dove non si applica la violazione del diritto umano.
La forma che la cooperazione tra Ue e Libia ha assunto dopo la sentenza “Hirsi Jama e altri contro Italia”
Dopo il caso Hirsi, l’Italia e l’Ue hanno reagito gestendo cioè le migrazioni senza che questo implichi un contatto fisico con le persone. L’Ue cioè ha cercato di aggirare ciò che emerse dalla sentenza, con la quale si punì l’Italia per aver portato fisicamente, con una nave italiana, i migranti in Libia. L’Unione Europea e i suoi stati membri agiscono coordinando le operazioni di intercettazione dei rifugiati realizzate dalla sedicente «Guardia costiera libica» (Gcl). Ma senza farlo direttamente. Attraverso tale sistema – che coinvolge La Valletta, i centri di coordinamento e soccorso di Roma, gli aerei di Frontex e navi militari – vengono recuperati coloro che riescono a fuggire dalla Libia.
In un rapporto redatto da Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, Alarm Phone e Borderline Europe, uscito a settembre 2020, si menzionano tre casi, avvenuti nella primavera del 2019, in cui imbarcazioni e aerei di paesi europei, pur essendo a conoscenza del fatto che vi fossero persone in mare, non agiscono ma anzi impediscono l’avvicinamento anche alle imbarcazioni non governative, e aspettano che intervenga la sedicente guardia costiera libica. Questo modus operandi, proprio secondo il rapporto, aiuta a capire la forma della cooperazione tra Ue e Libia assunta dopo la sentenza Hirsi Jama e altri contro Italia.
L’Italia, coadiuvata dall’Ue, sta cercando di aggirare anche in un’altra maniera i punti fermi emersi dalla sentenza sul Caso Hirsi. l’Italia ha contribuito nel 2017-2018 a far istituire la gigantesca area di “ricerca e soccorso” (Sar) libica. In questo maniera si cerca, come detto, di legittimare l’operato del paese Nord africano, volendolo far passare i suoi porti come sicuri. Infatti, la Libia, forte di tale riconoscimento, ha aumentato nel corso degli anni il numero dei suoi interventi. Sono 32.425 le persone intercettate in mare, dalla Guardia Costiera Libica, nell’area di “ricerca e soccorso” (Sar) libica e riportate in Libia.
Marco Marasà
(22 febbraio 2022)
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