Ai confini dell’Europa si gioca da anni una battaglia tra chi bussa alle porte di quella che a tutti gli effetti è diventata la Fortezza Europa, contro chi rimane tenacemente arroccato alla sua difesa. In questo contesto, i termini di “fronte” e “frontiera” finiscono per diventare quasi sinonimi.
Alessandro Leogrande nel 2015 definiva la frontiera come “una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno”. Oggi, a difesa e a chiusura di questa linea immaginaria, si erigono muri costruiti con i materiali più disparati: filo spinato e ferro, ma anche il materiale vischioso eppure denso di conseguenze delle scelte e tattiche politiche. Nessuna autorità o paese europeo rimangono estranei a questa battaglia. Le differenze risiedono, semmai, nei mezzi utilizzati per combatterla.
Il fronte orientale: Bielorussia e Balcani
È del 6 dicembre la notizia della morte di Avin Irfan Zahir, una donna curda incinta, bloccata nelle foreste tra Polonia e Bielorussia. Allo stesso modo, qualche settimana fa, è salita agli onori della cronaca la triste vicenda del bambino siriano morto di freddo nella foresta nei pressi di Kuznica, il varco a confine con la Polonia.
Il governo bielorusso, presieduto dal generale Lukashenko sulla cui rielezione le autorità europee hanno fin da subito nutrito seri dubbi di legittimità, pone sotto scacco l’UE attraverso l’arma ricattatoria dei migranti. Favorendo l’immigrazione di siriani e curdi attraverso dei voli di linea tra il Medio Oriente e il territorio bielorusso per premere contro il confine polacco, Lukaschenko spera di far riguadagnare al proprio paese peso politico attraverso il nuovo ruolo di gendarme dell’Europa orientale.
D’altra parte si tratta di una tecnica tutt’altro che inedita, basti pensare alle posizioni dei paesi appartenenti al cosiddetto Gruppo di Visegrád – cioè Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia – che da anni fanno della lotta all’immigrazione l’arma con cui ottenere dal resto dell’UE finanziamenti e peso politico. Emerge su tutti la spregiudicatezza politica del primo ministro ungherese Viktor Orbán, che periodicamente svolge e riavvolge il filo spinato antimigranti con cui ricattare l’Europa.
Ma fronte orientale significa anche rotta balcanica con l’Italia stavolta protagonista, insieme a Slovenia, Bosnia Erzegovina e Croazia, di pratiche di respingimento illegali alla frontiera tra i vari paesi, in un’escalation che va dalle riammissioni tra Italia e Slovenia sulla base di un accordo del 1996, fino alle applicazioni più estreme del metodo croato, fatto di pura violenza e accanimento contro i migranti.
La Francia dei migranti: Calais e il confine con l’Italia
27 migranti sono morti su un gommone nello stretto della Manica mentre tentavano di raggiungere l’Inghilterra lo scorso 24 novembre. Ma se si scava oltre il dato di cronaca si scopre che, anche in questo caso, si è trattato dell’ennesima tragedia annunciata. Lo sgombero, tra il 2015 e il 2016, dell’enorme “jungle” di Calais non ha risolto la situazione. Complice la rinnovata tensione con l’Inghilterra del post-Brexit, con l’invio di un aereo di sorveglianza Frontex la Manica torna ad essere un luogo militarizzato, in cui sulla pelle dei migranti – anche in questo caso prevalentemente curdi e siriani – si giocano interessi strategico-politici.
La gestione dell’immigrazione in Francia significa anche frontiera nord-occidentale con l’Italia, che reca con sé tutto il carico di tensioni ai valichi, respingimenti illegali, piccole jungle in alta quota e l’inevitabile carico di morti. Alta Val di Susa, Ventimiglia, Briançon, Oulx: sono i luoghi che designano questa che si va configurando come una nuova importante rotta, che taglia trasversalmente il Nord Italia, mettendo in ideale collegamento l’Europa dell’Est con quella dell’Ovest.
Come fatto emergere da MEDU, tuttavia, nel caso della rotta migratoria sul confine italo-francese alla sostanziale ostilità della politica ufficiale hanno fatto seguito pratiche di solidarietà portate avanti dalla società civile, di cui la vicenda di Cedric Herrou è un esempio emblematico.
Turchia e Libia: le frontiere esternalizzate a Sud dell’UE
La crisi afghana dello scorso agosto ha di nuovo posto sotto ai riflettori il ruolo della Turchia come sentinella d’Europa, mansione per la quale viene lautamente remunerata fin dal 2016. Ricompensa rinnovata a giugno dall’UE, che ha votato il nuovo stanziamento di 3 miliardi di euro destinati al blocco dei migranti alla frontiera turca. Si tratta della strategia dell’esternalizzazione delle frontiere, cioè la scelta di delegare ai paesi terzi la gestione dei flussi migratori, che viene applicata anche nei confronti dei paesi della rotta balcanica, che di fatto frena e impedisce il godimento del diritto di asilo che pure l’UE dovrebbe salvaguardare.
Anche in questo caso la Turchia utilizza l’immigrazione come arma di ricatto nei confronti dell’Unione Europea. L’ideale muro antimigranti, fatto dai mazzetti di miliardi dell’UE cementati dal collante della convenienza politica, infatti, manifesta periodicamente molte crepe e necessita di continui ritocchi, che giustificano e rendono conto, per esempio, dell’esistenza in Grecia del campo profughi di Moria a Lesbo.
Anche la Libia ha ricoperto e ricopre da anni, fin dai tempi del colonnello Gheddafi, un ruolo fondamentale nella gestione dei migranti. Il muro in Libia si declina della forma dei tristemente noti campi di detenzione, finanziati anche con i soldi erogati dall’Italia alla famigerata Guardia costiera libica, che periodicamente accendono l’indignazione generale, destinata altrettanto ciclicamente a spegnersi nell’arco di pochi giorni. Il controllo del flusso di migranti dall’Africa Subsahariana e dalle rotte orientali, inoltre, ha giustificato in parte l’attenzione internazionale nei confronti dello stato libico, funestato da una sanguinosa guerra civile, sorvegliata più o meno discretamente dall’occhio vigile del resto del mondo.
Poco più in là della Libia, precisamente in Marocco, ogni anno centinaia di migranti provenienti dall’Africa Subsahariana scavalcano la recinzione alta sei metri che funge da barriera antimigranti tra l’enclave spagnola e il resto del Paese.
E l’Italia?
Per la sua posizione strategica al centro del Mediterraneo, l’Italia fa naturalmente da cerniera geografica tra Europa dell’Est e dell’Ovest e tra le rispettive rotte migratorie. Parlare di (im)migrazione in Italia significa inevitabilmente parlare di Mediterraneo e di sbarchi. Quest’anno, complice la crisi afghana e le riaperture estive, sono aumentati gli sbarchi e, secondo i dati Frontex aggiornati ad ottobre 2021, l’Italia rimane al primo posto in Europa per gli arrivi via mare.
Se ai toni allarmistici e razzisti dell’era Salvini fa da contraltare la moderazione e pacatezza dell’attuale ministro Lamorgese, la posizione dell’Italia in Europa, contrassegnata da un sostanziale isolamento e dalla mancanza di collaborazione nella gestione di un fenomeno diventato da anni strutturale da parte degli altri paesi dell’Unione, non cambia.
Ma parlare di (im)migrazione in Italia significa anche parlare di accoglienza e pratiche di solidarietà, spesso anche contro la legge ufficiale. E come non ritornare con la mente alla vicenda di Mimmo Lucano, condannato ad una pena abnorme per il reato di solidarietà? O ai volti rassicuranti di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir che aiutano i migranti sulla frontiera triestina, insieme ai tanti “colleghi di solidarietà” lungo il confine italo-francese?
Se, con Antigone, richiamarsi alle “leggi non scritte” della solidarietà umana è un primo passo in avanti verso l’abbattimento di muri, è tuttavia soltanto attraverso un totale capovolgimento di prospettiva che si può tornare a pensare all’Europa come a una casa e non una fortezza.
Silvia Proietti
(08 dicembre 2021)
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