“Secondo gli ultimi dati INPS disponibili (2020), i lavoratori domestici sono oltre 920 mila. Si tratta di un settore caratterizzato da una forte presenza straniera (68,8% del totale), soprattutto dell’Est Europa e da una prevalenza femminile (87,6%). Una delle principali criticità del settore rimane il lavoro nero. Dai dati ISTAT emerge infatti come il lavoro domestico sia nettamente al comando della classifica dei settori con il più alto tasso di irregolarità, ovvero la maggiore presenza di “lavoro nero”. I dati aggiornati al 2019 evidenziano infatti per il lavoro domestico un tasso di irregolarità pari al 57,0%”, si legge sul Rapporto annuale sul lavoro domestico 2021 dell’Osservatorio domestico. Spesso sono le lavoratrici stesse ad accettare o a volere un lavoro in nero, per compensi più elevati non avendo reale contezza delle conseguenze ad esso connesse. Ecco che si manifesta la vita sospesa delle badanti attraverso la mancanza di assistenza sanitaria, dei contributi previdenziali e delle tutele legali sono solo alcune delle privazioni cui sono costrette le donne impiegate illegalmente nel settore di cura. I ritmi del lavoro sono serrati e prolungati, non ci sono permessi, malattie retribuite, c’è una costante privazione di sonno e inesistenza di vita privata. Tutte queste privazioni possono determinare gravi conseguenze sulla psiche e sul fisico di queste lavoratrici come denuncia da tempo Silvia Dumitrache, fondatrice di dell’Associazione donne romene in Italia (Adri), che da anni si occupa delle famiglie che transitano per l’Italia e della denuncia della loro condizione.
“Sindrome Italia”: la malattia delle badanti
La Sindrome Italia, denunciata da tempo dalla Dumitrache sui media è una forma depressiva acuta che vede la perdita radicale della propria identità e il desiderio di sparire. Nel 2005 due psichiatri ucraini, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, riscontrarono in alcune pazienti della loro clinica una storia personale e sintomi psichiatrici simili: una lunga permanenza in Italia come assistenti familiari e conseguenti desideri suicidi, inappetenza, insonnia e tristezza. La solitudine provata nel periodo lavorativo, la lontananza dagli affetti più cari e un ritorno difficile che non le aveva fatte sentire a casa portarono le pazienti alla depressione. Tra le principali vittime di questa condizione ci sono soprattutto coloro che rifiutano i giorni di riposo e le ore libere per guadagnare meglio, distrutte da ritmi massacranti. Sotto stress sviluppano sintomi somatici e psicologici che vedono l’instaurarsi di sentimenti depressivi, resistenza nei confronti del lavoro di cura, scarso contatto con i propri bisogni. Una storia che si ripete per centinaia di donne dell’Est. Colpisce molte delle badanti sia durante il loro tempo di permanenza nel paese straniero che poi acuita al loro rientro nel paese d’origine dopo anni di lavoro lontane da casa e dei loro figli, orfani bianchi che non reggono l’abbandono. Sul tema degli degli orfani bianchi l’Associazione Donne Rumene in Italia (ADRI) e Silvia Dumitrache hanno in corso il progetto “Te iubeste mama! / Mamma ti vuole bene” per sostenere genitori e figli a mantenere i contatti almeno in videochiamata e ridurre il senso di solitudine e abbandono, e allo stesso tempo denunciare le condizioni strutturali di sfruttamento delle donne.
Dorina e Margarita due storie di vita sospesa
Dorina è rumena, in Italia da più di venti anni è la badante di una signora di 85 anni. Racconta di essere con lei da meno di un anno, prima lavorava presso un’altra signora che è venuta a mancare. Ha un contratto regolare, una buona sistemazione e una condizione di lavoro ottimale: “la signora è completamente autosufficiente, i figli da quando è morto il marito non volevano restasse sola per questo mi hanno assunta. Ho un contratto di badante convivente e lavoro in teoria dalle 14 alle 22 anche se poi in realtà la mattina lavoro come colf in uno studio medico per arrotondare”. La vita di Dorina è dedita al lavoro, da quando la mattina si sveglia alle 6.00, prende l’autobus arriva nello studio medico dove fa le pulizie che è a 40 minuti di distanza da dove convive con la signora che assiste. L’autobus lo riprende alle 12.00 per tornare indietro, altri 40 minuti di strada. Alle 14.00 inizia il suo “mestiere di cura” e passa il tempo con la signora Giuliana, un ex insegnante di matematica. I pomeriggi passano tra una lettura di un libro, una partita a carte, un po’ di tv e quando la signora si sente bene una passeggiata al parco sotto casa. Arriva la sera, una cena veloce e poi massimo alle 23.00 a riposare per ricominciare tutto daccapo il giorno seguente. Dorina ha poco tempo per sé, e quello che ha lo impiega ugualmente nel lavoro. Ha una sola amica che ogni tanto vede la domenica anche se il più delle volte sceglie di passare il tempo o in casa da sola o a fare una gita con la famiglia della signora Giuliana, di fatto senza mai smettere di lavorare. In Romania ha una figlia di 9 anni che vive con i genitori dell’ex marito. La sente raramente e sono tre anni che non la vede. “Quando penso a Yulia provo solo vergogna e sensi di colpa, lei ha un deficit cognitivo ed io sono stata un fallimento, non mi sono presa cura di lei, l’ho abbandonata nonostante avesse bisogno di me. Tutto il lavoro che faccio è per lei, per garantirle una vita dignitosa ma penso che stia meglio senza di me, io la madre non l’ho mai fatta, non so cosa significa esserlo”.
Insieme a Dorina c’è Margarita, una donna di 59 anni moldava si sono conosciute nel palazzo. Margarita ha una storia simile, è arrivata in Italia nel 2006 e ha iniziato da subito a lavorare presso famiglie italiane, ad oggi, sono 8 quelle in cui ha prestato il suo servizio di cura, concretizzando esperienze e competenze. “All’inizio non è stato semplice, quando sono arrivata, non parlavo l’italiano, non avevo tutti i documenti e mi sentivo in colpa per aver abbandonato i miei figli e la mia famiglia. Ho lavorato un po’ di anni in nero, da una parte perché volevo guadagnare quanto più possibile per mandarlo a casa, dall’altra perché nessuno mi voleva mettere in regola perché conveniva anche loro. La signora Anna mi ha cambiato la vita, o meglio suo figlio un avvocato che ho conosciuto casualmente che mi ha assunta in modo regolare. Mi sono presa cura della signora Anna per nove anni, da quando aveva 87 anni fino a quando non è morta a 95. Mi ha trattata come una figlia, mi ha insegnato davvero bene l’italiano e più volte mi ha pagato i biglietti aerei per tornare dalla mia famiglia. Le esperienze che ho avuto dopo non sono state tutte così, anzi. Sono stata sfruttata fino allo sfinimento, senza pause, senza diritti facevo il lavoro di tre persone da sola. Ma io avevo bisogno di lavorare dove altro sarei potuta andare? Ho sempre preferito soffrire io e lavorare anche tra le lacrime ma avere la certezza di poter restituire qualcosa alla mia famiglia. Ora è tanto tempo che non torno e me ne vergogno. Ho sempre creduto nell’importanza del mio lavoro e l’ho sempre fatto con orgoglio nonostante il dolore, la fatica e le difficoltà. Nessuno pensa a noi ma la dignità delle badanti va difesa”.
Quelle di Dorina e Margarita sono esempi di vite sospese. Donne che stanno qui per molti anni senza vivere davvero. Donne che vivono solo il loro lavoro a volte private di diritti insospettabili. Donne che collezionano ventagli di esperienze, di dolore e di solitudine spesso smarrendo la propria identità e autodeterminazione.
Elisa Galli
(25 maggio 2022)
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