Fare sbarchi selettivi significa dimenticare storie d’umanità

Il caso delle navi ONG e la scelta del Ministero dell’Interno di far scendere solo una parte dei migranti salvati in mare, delinea in modo feroce la politica che sottende l’idea di sbarco selettivo. Appannandosi di scientificità e pragmatismo, gli ultimi avvenimenti dimostrano piuttosto la totale assenza di una conoscenza profonda delle rotte migratorie e degli orrori che le persone che le percorrono devono superare.

Tutto questo lo sa bene Alberto Barbieri, coordinatore di Medici per i Diritti Umani, un’organizzazione umanitaria impegnata in vari progetti di supporto sanitario e psicosociale per i migranti. Proprio per il lavoro che svolge vede chiaramente  le contraddizioni delle scelte del governo Meloni, e delle gravi ricadute che queste hanno sulle condizioni delle persone più vulnerabili.

“L’attività di assistenza medica di base che offriamo grazie alle nostre cliniche mobili nelle grandi città d’Italia ci ha portato a riscontrare che, tra i migranti e rifugiati che si presentano al nostro sportello apparentemente per problemi di salute fisica, tantissimi portano con sé ben più gravi vissuti di violenza traumatica gravissima. Questi episodi si sono verificati nel paese da cui appunto sono fuggiti, ma molto spesso anche durante il viaggio che porta in quel collo di bottiglia della rotta migratoria che è la Libia, un luogo che è, ed è stato negli ultimi anni, un grande campo di tortura. Chi si rivolge a noi spesso ha subito eventi traumatici estremamente gravi, e quasi tutti di natura interpersonale, ossia perpetrati dall’uomo sull’uomo. Abusi e torture, hanno una valenza psicopatologica devastante poiché minacciano le sicurezze ontologiche di qualsiasi individuo. Dietro ai segni fisici di queste violenze ci sono le conseguenze ben più subdole e insidiose di natura psicologica.”

La storia di Daby

Daby è un ragazzo maliano che tra poco compirà 22 anni. In Italia dal 2017, il suo percorso migratorio è stato una strada dura che solo dopo diversi anni, e traumi, lo ha portato a raggiungere il nostro paese nel quale oggi vive e lavora. Il viaggio, come per tanti altri nella sua condizione, è nato sia dalla necessità di fuggire dall’instabilità e dalla violenza, sia dal desiderio di poter realizzare i propri sogni.

Daby (foto Gma)

“Non ho lasciato il mio paese per la povertà o perché non lo ami. L’ho lasciato perché lì c’è una situazione costante di pericolo ed avevo paura perfino di uscire di casa, anche solo per andare al mercato. In Mali non avrei potuto costruire nulla ed io invece voglio realizzare qualcosa della mia vita. Ho deciso di partire e sono andato in Mauritania, dove ho passato qualche mese per poi andare in Algeria, dove sono stato un anno della mia vita. Da lì, ultima tappa prima dell’Europa, ho raggiunto la Libia dove sono stato tre anni e cinque mesi.”

“La Libia è uno dei posti peggiori. Avevo già sentito sparare nel mio paese e, purtroppo, tutto il viaggio è stato costellato di varie esperienze terribili, ma è qui che ho sofferto particolarmente. Per un anno mi hanno tenuto in una prigione affollata di tanti altri come me. Eravamo trattati come animali, e sfruttati come schiavi. Penso che non ci avrebbero liberato nemmeno se avessimo potuto pagare.”

Daby riesce a fuggire solo grazie ad un colpo di fortuna perché uno dei capi della prigione cercava qualcuno per un lavoretto a casa. Fingendosi in grado di svolgerlo, una volta fuori riesce a scappare. La prima cosa che fa è provare a raggiungere l’Italia.

“Ho provato la via del mare ma siamo stati bloccati dalla guardia costiera libica e mi sono ritrovato in un’altra prigione. Sono stato rinchiuso 15 giorni ed anche qui ho visto perdere la testa a tantissime persone che erano con me. 

È comprensibile: non mangi, non hai l’acqua, non hai i vestiti. C’è solo un pavimento e tanta altra gente. Ovunque scarafaggi e violenza. Senza telefono, non puoi nemmeno far sapere ai tuoi che sei vivo. Per resistere io mi aggrappavo al ricordo di mia madre che mi aveva insegnato che qualsiasi cosa ti capiti nella vita, per quanto brutta, un giorno dovrà pur finire. Ho cercato di tenere a bada la paura ed, alla fine, il consiglio di mia madre mi ha portato fin qui in Italia.”

L’incubo che ho attraversato mi ha cambiato moltissimo. Prima ero un ragazzino come molti, con le sue paure. Non avevo mai visto un cadavere, o il sangue, e addirittura evitavo i film violenti. In Libia invece mi sono trovato catapultato in un mondo nel quale un giorno mi è capitato di assistere all’uccisione -senza un reale motivo- di dieci persone, ed io ho anche rischiato di essere l’undicesimo. Un mondo che ancora faccio fatica a cancellare dalla mia memoria, proprio come quelle tre ragazze che, ricordo, nella prigione in questione vissero un inferno impronunciabile.”

Sbarchi selettivi e umanità

Questa storia, che ne racchiude tante, mostra come l’idea di sbarco selettivo per i migranti più bisognosi adottando unicamente criteri di necessità sanitaria è al tempo stesso assurda e crudele. Pretendere che alcuni migranti abbiano più diritto a sbarcare di altri significa ignorare il dolore, i traumi e gli abusi che praticamente ognuno di loro ha dovuto affrontare nel lungo viaggio che li ha portati a ritrovarsi in mare su imbarcazioni di fortuna che spesso affondano.

“L’approccio prospettato dal governo italiano di fronte a questo tipo di fenomeno estremamente complesso e drammatico è stato quello a dir poco grottesco. Chi è sopravvissuto solo per ultimo ad un naufragio, che sia  soccorso dalla guardia costiera italiana o da unità navali di una flotta civile come le ONG, è sempre da considerarsi fragile e bisognoso di assistenza fino a prova contraria.” spiega Barbieri 

“É veramente contrario ad ogni etica medica ed umanitaria, oltre che  al buon senso, pensare di fare una selezione sulla base di un rapido ed elementare triage allo sbarco per poi rimandare in mezzo al mare chi non lo supera. Gli sbarchi selettivi in questo senso sono insostenibili tant’è che, come auspicavamo, dopo un secondo triage più approfondito a tutti i migranti a bordo è stato consentito di sbarcare perché ognuno di loro versava in difficili condizioni psicofisiche.”  

Tutti coloro che sono costretti ad intraprendere il percorso che porta all’Europa attraverso la Libia sono sottoposti a traversie inimmaginabili. Partiti da paesi diversi, per ragioni diverse, chi riesce a raggiungere l’Italia arriva inevitabilmente traumatizzato ed ha bisogno di immediata accoglienza.

“Chi è sopravvissuto al viaggio è una persona che è partita con dei sogni e  grandi progetti. Anche io sono partito con queste idee ma se penso a tutto quello che ho visto non so se lo rifarei. Non auguro a nessuno, nemmeno ad un mio nemico, di passare quello che ho passato io. Sinceramente credo che sia Personalmente ho avuto una combinazione di fortuna e coraggio, ma tanti sono quelli che si sono persi per sempre lungo il viaggio.” conclude Daby

Paolo Pirani

(23 Novembre 2022)

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