Sbarchi diritto internazionale: chi deve soccorrere i migranti?

Sbarchi e diritto internazionale: la battaglia del nuovo Governo contro i migranti si tinge dei toni dei tecnicismi giuridici e del costante riferimento alle norme internazionali, spesso interpretate in modo fantasioso (ma credibile), inaugurando un nuovo stile rispetto all’ostilità antimigranti di pancia e identitaria dell’era salviniana. Stessi gli esiti, differenti i mezzi.
Ma cosa effettivamente sancisce il diritto internazionale sul tema delle migrazioni? Il generico richiamo al rispetto delle convenzioni sui diritti umani dei migranti – Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Convenzione di Ginevra del 1951, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) – sembra ormai tragicamente ininfluente nel dibattito pubblico. Cosa stabiliscono, piuttosto, la Convenzione di Montego Bay, la Convenzione di Amburgo e il Regolamento di Dublino sulla questione dei salvataggi in mare e sull’accoglienza dei naufraghi?

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Il cimitero delle barche a Lampedusa. Foto Pixabay

Sbarchi e diritto internazionale: lo scontro Italia-Francia

Accanto all’espressione “blocco navale” si è andata diffondendo in questi ultimi giorni la convinzione per cui la responsabilità degli sbarchi di migranti salvati dalle ONG spetterebbe allo Stato di cui la nave soccorso batte bandiera. Convinzione che ha preso ancor più vigore dopo la dichiarazione congiunta del 12 novembre dei Ministri dell’Interno di Italia, Grecia, Malta e Cipro in risposta al braccio di ferro diplomatico tra Roma e Parigi scaturito dalla vicenda della nave ONG Ocean Viking.

Negli stessi giorni il Governo francese stava preparando l’accordo con la Gran Bretagna, firmato proprio il 14 novembre dai Ministri dell’Interno dei due Paesi, che ha rafforzato la cooperazione per il freno delle partenze dei migranti da Calais verso i lidi britannici a suon di elargizioni economiche e cooperazione tra forze di polizia.
La Francia, inoltre, non ha esitato a cogliere la ghiotta occasione della crisi Ocean Viking per riprendere con maggior vigore la strategia di blindatura del confine con l’Italia, che comprende non di rado anche respingimenti illegali alla frontiera (come dimenticare la reazione, diventata virale grazie a un Tweet, dell’allora ministro degli esteri Di Maio allo sconfinamento della polizia francese nel territorio di Bardonecchia avvenuto nel marzo 2018?)

Il tweet dell’allora Ministro degli Esteri Luigi Di Maio – 31 marzo 2018

L’art. 92 della Convenzione di Montego Bay del 1982

Stando al noto adagio in voga in questi giorni, le navi delle ONG sarebbero una sorta di exclave galleggiante dello Stato di bandiera, secondo una dubbia interpretazione dell’articolo 92 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1982), meglio nota come “Convenzione di Montego Bay”, che stabilisce diritti e giurisdizione degli Stati nei confronti delle acque marine. Al primo comma del sopracitato articolo 92 si legge:

Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva. Una nave non può cambiare bandiera durante una traversata o durante uno scalo in un porto, a meno che non si verifichi un effettivo trasferimento di proprietà o di immatricolazione.

L’innocua e vagamente poetica locuzione “nell’alto mare” riveste in realtà un’importanza decisiva per la corretta interpretazione dell’articolo. Le navi ONG in attesa di approdare presso un porto sicuro, nel momento in cui “diventano un problema” per l’eventuale Paese di approdo, si trovano infatti già in acque territoriali (cioè nella porzione di mare compresa fino alle 12 miglia marine dalla costa), sottoposte alla giurisdizione dello Stato costiero, come l’Italia nel caso della nave Ocean Viking. Con l’espressione “alto mare”, invece, si designa la porzione di mare oltre le 200 miglia marine dalla costa, su cui nessuno Stato può esercitare alcuna giurisdizione. In alto mare, pertanto, è materialmente possibile fare richiesta di asilo presso un qualsivoglia Paese ed è quindi necessario superare le acque territoriali di uno Stato costiero.
Per fugare ogni dubbio in merito alla responsabilità del soccorso in mare, sarebbe bastato scorrere di poco il testo della stessa Convenzione per incappare nell’articolo 98.2, che a sua volta recita:

Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.

Zonazione dello spazio marittimo -Camilla Tommasetti per IOC-UNESCO

La Convenzione di Amburgo: zone SAR e porti sicuri

La Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo del 1979, meglio nota come “Convenzione di Amburgo”, sebbene decisamente più attinente al tema in questione, non è stata molto citata nella pur ricchissima serie di riferimenti al diritto internazionale del mare di questi ultimi giorni. Dobbiamo a questa convenzione la creazione del concetto di zona SAR, Search and Rescue, cioè la porzione di mare in cui uno Stato ha la responsabilità di coordinare le operazioni di salvataggio (non coincide necessariamente con il perimetro delle sue acque territoriali) e la definizione di alcune nozioni di fondamentale importanza per i salvataggi in mare, come quella di “porto o luogo sicuro”(POS, place of safety).

Zone SAR nel Mediterraneo – cartina OIM

La Convenzione di Amburgo specifica che gli sbarchi devono avvenire nel primo porto o luogo sicuro, cioè quello più vicino in termini di tempo e distanza, indipendentemente dalla Stato titolare della zona SAR di riferimento. Nelle successive Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare del 2004 si legge:

un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale.

Ma se la concessione di un luogo/porto sicuro si risolve unicamente in questo, perché il Governo italiano è così ostile alla possibilità di concedere un porto sicuro ai migranti che sbarcano? La risposta è tanto semplice quanto spiazzante: per colpa del Regolamento di Dublino.

Il Regolamento di Dublino: un nodo politico

Con il Regolamento di Dublino si va a toccare il vero nodo politico europeo sul tema dell’accoglienza dei migranti: lungi dall’essere una mera convenzione giuridica internazionale, è la rappresentazione più concreta della difficoltà che l’Unione Europea mostra nel concretizzare l’ideale, sempre espresso e quasi mai attuato, della solidarietà nella gestione del fenomeno migratorio.
Il Regolamento UE n. 604/2013, meglio noto come “Regolamento di Dublino III” (evoluzione di una prima versione del regolamento entrata in vigore nel 1990, poi rivista nel 2003) stabilisce

i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide.

L’articolo 13 di Dublino III, che ha finito per essere utilizzato come criterio quasi esclusivo per la definizione dello Stato competente all’analisi della richiesta di asilo (in realtà il Regolamento prevede anche altri due criteri – la valorizzazione dei legami familiari del migrante e della competenza dello Stato membro responsabile del rilascio di un visto di ingresso o un titolo di soggiorno valido – ma sono stati applicati molto di rado), per i Paesi di primo approdo rappresenta il tentativo, da parte degli altri Stati membri, di scaricare su di essi il peso della gestione dei flussi migratori. In nessuna considerazione viene tenuta, inoltre, la volontà del richiedente asilo, quasi mai interessato a fermarsi nei Paesi dell’Europa meridionale. Il testo dell’articolo 13 recita infatti:

Quando è accertato […] che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale.

Ecco spiegata la motivazione per cui per i Paesi di primo approdo diventa tanto problematico concedere un porto sicuro: se il migrante per esempio sbarca in Italia, è obbligato a fare qui richiesta di asilo e l’Italia stessa dovrà farsi carico della sua gestione.

Riformare Dublino III per una vera solidarietà europea

La centralità del tema della riforma di Dublino III è da anni nella consapevolezza dei diversi Paesi europei, tanto da aver spinto nel 2016 il Parlamento Europeo alla storica approvazione di un progetto di riforma del regolamento di Dublino, che meglio valorizzava i legami del richiedente asilo con il Paese di destinazione, poi naufragato in sede di Commissione Europea. Con l’avvento di Ursula Von Der Leyen alla presidenza, il 23 settembre 2020 la Commissione Europea ha proposto un Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo comprendente anche la volontà di riformare Dublino III. Per ora l’auspicata riforma si è fermata all’accordo dello scorso giugno sul Meccanismo volontario di solidarietà per la ricollocazione dei migranti, proprio quello che la Francia ha voluto interrompere dopo la già citata crisi diplomatica con l’Italia.

Lungi dall’avallare in alcun modo la propaganda sovranista sull’emergenza migranti e lo scontro con la Francia, bisogna tuttavia riconoscere che, accanto alle reazioni di sdegno di fronte all’ultimo eclatante rifiuto italiano di concedere un porto sicuro, non riesce a farsi strada alcuna seria volontà di condividere la gestione del fenomeno migratorio da parte degli altri Paesi UE. Il miglior modo per combattere la retorica antimigranti di nazionalisti e sovranisti – crediamo – non è quello di avallare situazioni e strategie meno plateali e più composte di rifiuto dell’accoglienza dei migranti, limitandosi poi a condannare quella che viene a configurarsi come l’espressione più estrema di una tendenza universalmente espressa negli ultimi anni da tutti i Paesi membri e dai governi di diverso colore. La risposta, per quanto non possa piacere, è unica ed evidente: dare effettiva consistenza al principio della solidarietà europea e opporre alla logica della riduzione dei migranti quella della cooperazione per la gestione di un fenomeno che non si può (e non si dovrebbe voler) arrestare.

Silvia Proietti
(16 novembre 2022)

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