Setareh Alidoost Dafsari: lasciare Teheran per Cinecittà
“Il primo film importante che ho visto è stato La strada di Fellini. Ero una bambina ed in Iran, a quel tempo, in televisione c’erano solo due canali televisivi che di giorno trasmettevano le immagini della guerra con l’Iraq ma, tardi la sera, c’era un programma che si chiamava Settima arte, dove venivano trasmessi tutti i più grandi film della storia del cinema. Era ideato da un intellettuale, un idealista tornato in Iran dopo la rivoluzione che voleva contribuire allo sviluppo culturale del paese. In quelle sere, quando mi permettevano di stare sveglia, ho potuto vedere l’elite dell’elite del cinema d’autore”.
Nasce così la passione per il cinema di Setareh Alidoost Dafsari, una dei sei giurati di Piuculture alla trentesima edizione del Med Film Festival di Roma. Nata in Iran nel 1981 due anni dopo la rivoluzione islamica, Setareh trascorre l’infanzia a Rasht, una città vicina al Mar Caspio, mentre il suo paese è in guerra con l’Iraq, ma quando la famiglia si trasferisce a Teheran decide di frequentare la facoltà di Lingua e Letteratura Italiana con l’intento, appena laureata, di lasciare l’Iran alla volta dell’Italia per studiare cinema, “perché ero innamorata di Federico Fellini e dell’Italia filtrata dai suoi film”. A Roma studia Cinema al Dams e direzione della fotografia a Cinecittà, “negli stessi studi dove avevano lavorato Fellini, Pasolini, Antonioni, De Sica, tutti i registi italiani che ammiravo” ed inizia a collaborare come direttrice della fotografia e camera woman per i corti e le produzioni indipendenti di amici e compagni di corso ma sperimenta anche la difficoltà ad entrare in un mondo prevalentemente maschile e spesso maschilista, come donna e come straniera.
Camera woman: Italia, Iran, Afganistan
Tornata in Iran per oltre un anno, inizia a collaborare con diversi registi, soprattutto documentaristi attivi sulla scena culturale del suo paese, tra i quali Mojtaba Mirtahmasb e la famosa regista iraniana Rakhshan Banietemad, e con loro lavora per un periodo come seconda camera sul set di Touran Khanom (2019), un documentario che racconta la storia di “Turan Mirhadi”, la donna che si è dedicata a diffondere e sostenere, in Iran, l’educazione dei bambini più svantaggiati.
“In quel periodo conobbi anche Diana Saqueb Jamal, una regista afgana che mi invitò a raggiugerla a Kabul per girare Sorkhe Tirah, tradotto Dark Red, un corto selezionato nel 2017 al Locarno Film Festival che affronta la condizione della donna afgana in un mondo governato da uomini, dove l’emancipazione femminile è possibile solo nella sfera privata e mai alla luce del sole. “Con la stessa regista abbiamo lavorato in seguito anche ad un documentario, Afganistan: Unveiling a Never-Ending Tale, un lavoro molto interessante perché ha potuto raccogliere le interviste agli intellettuali, agli artisti e alle persone più importanti della società civile afgana prima che i Talebani ritornassero al potere. Molti di questi intellettuali avevano studiato all’estero e avevano deciso di tornare in patria per ricostruire un paese democratico. In tutte le interviste emergeva sempre la stessa paura, condivisa da tutti: che i Talebani riprendessero il controllo del paese, cosa che effettivamente poi è accaduta. Così, di quella società che ho visto e filmato, non è rimasto nulla”.
Dal set alla mediazione linguistica
Il covid, come è avvenuto per tanti, segna uno spartiacque anche per Setareh e, sebbene non smetta mai di seguire ed interessarsi di cinema, Setareh inizia ad occuparsi di interpretariato e di traduzione per diversi eventi culturali legati al cinema iraniano, al sottotitolaggio ma anche alla mediazione linguistica, lavorando in particolare con i rifugiati afgani. “Da tre anni lavoro con un’organizzazione internazionale dove mi occupo di minori migranti non accompagnati e delle famiglie accolte nelle varie strutture insieme ai figli, un ambito molto doloroso ma che dal punto di vista lavorativo e umano, è importante per me”.
“Consumatrice seriale di film”
Ma la passione che si accese nelle notti in cui, bambina, gli adulti le permettevano di stare sveglia a guardare i grandi film, non l’ha mai abbandonata: “non ho mai smesso di interessarmi allo sviluppo del cinema nel mio paese, di seguire festival e gli eventi culturali e sono una consumatrice seriale di film. Ho fatto parte della giuria di Cinema d’iDEA, International Women’s Film Festival, un festival al tutto femminile che lo scorso anno aveva un’attenzione particolare alle registe iraniane in seguito allo sviluppo del movimento Donna Vita Libertà e quest’anno ho coordinato un evento a Zalib, dove abbiamo proiettato tre cortometraggi iraniani vincitori di festival”. In un momento storico in cui il diverso ci fa sempre più paura, “il cinema è molto importante, perché restituisce un’immagine autentica ed originale di questo diverso, nel quale magari ci riconosciamo e realizziamo che, in fondo, non è poi tanto differente da noi”.
Youssef Ramadan Said: fare il rap in Libia
Il rap è stato, per Youssef Ramadan Said, in arte MC Swat, lo strumento per esprimere sé stesso, per descrivere la società che insorgeva, le tensioni ed i cambiamenti politici e sociali in Libia, sulla scia delle “primavere arabe” che nel 2011 hanno portato alla caduta del regime di Gheddafi. Libertà di parola, significato di rivoluzione, islam e propaganda, repressione, bisogno di libertà sono stati cantati da Youssef per necessità, per raccontare attraverso musica e parole un paese in rivolta
“Mi è sempre piaciuto raccontare storie, ho la testa piena di storie e il rap, a differenza di altri generi musicali dove i testi spesso sono scritti da altri, esprime il pensiero di chi canta e non serve avere una bella voce”. Youssef è uno dei sei giurati di Piuculture per la trentesima edizione del Med Film Festival, perché “anche il cinema racconta storie, per questo mi piace. Penso sia l’evoluzione della filosofia umana, la sua forma più completa”.
Rappare la rivoluzione
Nato nel 1988 in Libia, MC Swat è uno dei rapper più conosciuti nel suo paese. La sua città natale, Bengasi, è stata il primo focolaio delle insurrezioni del 2011, che il rapper descrive in un brano intitolato “This is Revolution”, Hadhee Thowra, e che lo porta a diventare, a soli 23 anni, famoso in tutto il paese, come mostra il documentario del 2014, Yousef’s song, che lo vede protagonista. Da allora un contesto in continuo cambiamento diventa il contenuto di tutta la sua produzione, per la maggior parte a carattere politico e sociale.
“Uno dei miei pezzi più famosi si intitola Freedom of Speach, in cui rivendico il diritto alla libertà di parola e ad esprimere il dissenso. Dopo la rivoluzione il controllo del paese era passato in mano ai Brothers of Islam e non era possibile esprimere critiche o si era considerati automaticamente nemici della rivoluzione. Ma se non c’era libertà di parola, allora perché avevamo fatto la rivoluzione? Stavamo riproponendo lo stesso vecchio sistema, avevamo solo cambiato i capi. Io non volevo mettere in discussione la rivoluzione, ma cos’era diventata: eravamo insorti per essere liberi, liberi anche di esprimerci, quando invece l’intero sistema continuava ad essere sbagliato”.
In Benghazistan, invece, Youssef cerca di mettere in guardia la popolazione sul potere seduttivo della propaganda “quando è iniziata la rivoluzione, solo il 10 % dei ribelli era fondamentalista, il resto era gente normale ma con il tempo sempre più persone si sono unite a questa minoranza a causa del potere persuasivo della propaganda, che non parla alla razionalità dell’uomo ma alla pancia, alle emozioni. Io ho provato a descrivere come agisce sulla gente, e spiegare che non ha nulla a che fare con la religione ma è solo un’ideologia politica”.
Dall’altro lato del Mediterraneo
Youssef vive a Roma da tre anni. Per lui, vivere in Libia era diventato troppo pericoloso. Come rapper tutti si aspettavano che prendesse posizione, dichiarasse pubblicamente da che parte aveva deciso di stare. Ha dovuto allora attraversare il Mediterraneo: da Tripoli arriva a Siracusa, da li viene portato in Svizzera, poi in Germania e dopo sei mesi rimandato in Italia, dove riesce ad ottenere asilo politico. Nel suo processo di inserimento è stato fondamentale l’aiuto ricevuto da Refugees Welcome, dalla sua buddy e da tutta la rete di volontari di questa organizzazione “che io stimo moltissimo. Sono persone meravigliose che tengono veramente a quelli che aiutano. Quando sono arrivato in Italia li ho contattati attraverso Istagram, mi è stata assegnata una buddy che fosse affine ai miei interessi e che mi ha introdotto nella cultura italiana, presentato persone, abbiamo viaggiato”. Però, nonostante stia bene da questa parte del Mediterraneo, “se potessi tornerei in Libia all’istante, dalla mia famiglia, dai miei amici”.
Youssef ha smesso di produrre musica, ma non di scrivere brani e le ragioni sono tante, non solo economiche “la gente si aspetta che io parli di politica ma io non me la sento più: la situazione in Libia è complessa, la mia famiglia continua a vivere lì e non voglio metterla in pericolo. Potrei parlare di altro, scrivere testi diversi ma non ne sono capace, perché mi sentirei come se tradissi ciò che sono. Anche se sono una persona allegra, mi piace essere preso sul serio”.
Natascia Accatino
(5 novembre 2024)
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