Ramadan, alla ricerca del vero Islam

Abdel Latif Chalikandi e Sabrina Lei

“Vogliamo far conoscere il vero Islam, vogliamo dirvi cosa dice davvero il Corano. La conoscenza è potere, vogliamo creare un’armonia con voi” dice Abdel Latif Chalikandi, indiano del Kerala, musulmano, profondo studioso del testo sacro dell’Islam. Un Iftar informale, condiviso con lui e la moglie Sabrina, giovane italiana, direttrice della Jay Editore, convertita da quattro anni, perché “l’Islam mi ha dato le risposte che nel Cristianesimo non trovavo, d’altra parte è l’Ultima Rivelazione…”. L’acqua è già in tavola da 10 minuti ma si attende, controllano l’orologio, scattano le 20:20, il sole è appena tramontato, e Abdel può finalmente gustarsi la sua pizza con il salmone, che adora.

Ma alla Grande Moschea di Roma, al penultimo Iftar prima della chiusura del Ramadan, di armonia non se ne respira poi così tanta. Dopo l’ultima delle cinque preghiere, in cui si è pregato divisi, gli uomini e le donne si accingono a mangiare separati in un unico fabbricato suddiviso per meno della metà da un pannello alto e grigio. Quando chiedo a un uomo perché mi risponde: “è così, l’uomo deve stare sempre davanti alla donna”, sostenuto da un italiano convertito che con l’espressione dell’ovvietà annuisce e rincara “è sempre stato così”. Fortunatamente Abdel e Sabrina mi aiutano a capire. Secondo Sabrina “il Corano è un testo davvero complesso, magari l’80% dei musulmani lo conosce a memoria, ma non l’ha veramente capito”. Secondo Abdel è un classico fraintendimento: “nel Corano è scritto che la donna è come un vestito per l’uomo, ma è scritto anche che l’uomo è come un vestito per la donna. Il tuo vestito è la tua personalità, ti protegge”. Allora non è solo l’uomo che deve proteggere, che “deve stare davanti”.

La parte della mensa dedicata agli uomini: in fondo il pannello divisorio

Il clima tra la grande sala degli uomini e la piccola delle donne è completamente diverso. Uomini stanchi ma rilassati si contrappongono al piccolo gruppo di donne, veramente stanche e nervose. Chiedono nessuna foto, nessun nome, nessun registratore, addirittura nessuna penna, forse nella speranza che dimentichi? Peccato che è solo un danno all’accuratezza delle loro storie. Poche parole prima – “ora non ce la faccio a parlare” – e dopo il pasto – “ora è un momento di intimità, giornalisti invasivi”. Le donne dicono di conoscersi di vista: “siamo solo compagne di preghiera” afferma una ragazza somala, eppure la divisione tra i tre tavoli – saremo una 30ina tra donne, ragazze e bambine a confronto delle lunghe tavolate che ospiteranno un centinaio di uomini – è piuttosto netta tra somale ed etiopi. Chi è in minoranza sembra muoversi con più disinvoltura… Dopo un po’ che io e la mia collega siamo in piedi, gli uomini dall’altra parte del pannello gentilmente ci passano due sedie e una donna ci porta un piatto di minestra di ceci, dico “no grazie, non si preoccupi”, pensando non ce ne fosse abbastanza per chi era in digiuno, ma mi risponde “prendi, non è sporco”. Colto il brutto fraintendimento, afferro il piatto, sistemo la mia sedia tra le somale e cerco di intraprendere una conversazione. Mi interessa avere un parere sulla risposta “è così”, rispetto alla divisione tra uomo e donna, e una di loro mi risponde “l’uomo è così” alzando le spalle, tra rassegnazione e indifferenza.

L’unica foto permessa: la minestra di ceci

Per ognuna di noi ci sono due datteri – quelli che per tradizione si mangiano subito, è scritto che così il Profeta usava interrompere il digiuno, ma sono un po’ andati, e quasi tutte li lasciano – una mela, un piatto di penne al pomodoro con un pezzo di carne bovina halal sopra e qualche rosetta. Questo è l’Iftar offerto dalla Moschea, e molti, nonostante il digiuno, lasciano avanzi nel piatto: “prima ci davano il cous cous, ora la crisi è arrivata pure qui”. Qualcuna porta cose più buone da casa, offrendole alle altre: una ragazza italiana, nata a Roma, “musulmana per rispetto alle mie origini” etiopi, offre la sua insalata di pomodori, dei sambousa di origine indiana, piccole paste sfoglia triangolari farcite di carne, cipolla tagliata finissima e spezie a piacere, e il kahawa, il caffè etiope dolce e leggero aromatizzato al cardamomo. Una donna somala ricambia con i kac kac, i biscotti dalla ricetta semplice per le grandi feste – farina, lievito, zucchero, subag cioè burro chiarificato, latte, cardamomo, sale e olio per friggere.

Alcuni uomini, seduti sugli scalini all’esterno, hanno aspettato solo la mensa in attesa che i primi uscissero dalla Moschea alla fine della quinta preghiera. Le ragazzine litigavano con le adulte: “sembra che digiuni solo te!”, preoccupandosi poco dell’astensione dalle brutte parole – tra le regole del Ramadan, come mi aveva spiegato Abdel: “ci si astiene anche dalle parolacce, dalle discussioni, dall’invidia, dalla rabbia, dall’abusare delle persone. Il sorriso è un atto di carità”. Naima, 31 anni, in Italia da 27, ha 13 fratelli qui e nessun lavoro: in un’intera famiglia musulmana da un anno è convertita al Cristianesimo. È venuta a mangiare in Moschea per il suo compleanno: “stavo a letto tutto il giorno, stavo male, non avevo voglia di morire, ma nemmeno di vivere. Ora sono felice”. Ci dedica una preghiera ringraziando Gesù del nostro incontro.

Id al Fitr – Donne in preghiera

Dopo una serie di chiacchiere in arabo e due parole distinte – “italiano” e “giornalista” -, una donna di Mogadiscio che risponde “io non ti ringrazio” a chi la ringraziava per la sua non disponibilità, un’altra donna somala che alla domanda “ci vuole raccontare qualcosa di questo Ramadan?”, risponde “è come se chiedessi a un cristiano di parlare della sua comunione” e non ne vedo il problema, noto una signora che da lontano mi fa l’occhiolino: “giornalista eh? Bel lavoro, mio fratello è giornalista a Tunisi!”. Colgo la palla al balzo, le chiedo se possiamo fare una chiacchierata e mi fa segno di seguirla, ci nascondiamo dietro il fabbricato, per fumare una sigaretta. Lei si chiama Karima ed è in compagnia di un’amica che in Italia, da quasi 30 anni, si fa chiamare Ines. Appena il clima si fa amichevole, con un certo sollievo si spogliano di veli e abaya, il lungo camice che loro indossano sopra pantaloni e maglietta. Notando il mio stupore, Karima mi dice “la Tunisia è un paese libero, non ci sono leggi che impongano il velo, come in Arabia Saudita”. Ma dietro quei sorrisi gentili, c’è la disperazione. Karima fa la badante mentre Ines è cuoca in una pizzeria, ma entrambe sono in cerca: “l’Italia va male, si vede, anche noi non riusciamo più a trovare lavoro”, mi chiedono dove possono trovarlo, oltre al classico Porta Portese: “una volta chiamo per un annuncio per badante, quando entro in quella casa, un vecchio – italiano – voleva solo portarmi a letto”. Mentre Ines è dovuta rimanere ferma 6 mesi per un tumore al seno. Sono sole e sembrano molto legate: entrambe sono state abbandonate dai rispettivi mariti, ritornati in Tunisia, e tutte e due hanno una figlia piccola che le aspetta, che vorrebbero far venire qui: “in Tunisia non ci tornerei mai, ma il mio sogno è andare in Svizzera” dice Ines che mi racconta di essere stata derubata dal marito e per gli uomini ha solo parole dure: “sono le donne che lavorano, l’uomo non fa niente, passa le giornate a fumare”.

Id al Fitr – una ragazza senza velo con in braccio un bambino nello stretto corridoio della Moschea

Quando racconto a Sabrina la mia esperienza alla Moschea, e un certo disagio che mi ha accompagnato, mi dice di non sottovalutare un aspetto a cui non avevo assolutamente pensato: “molte donne sono gelose dei loro uomini, li maltrattano, fosse per loro li chiuderebbero in casa, ma perché i Tg dovrebbero raccontarlo?”

Oggi all’Id al Fitr, c’erano davvero tante donne. Si ammassavano una sull’altra per andare a pregare nello stretto corridoio laterale della Moschea. E ripensavo alla sala della mensa, così ìmpari, da non vederci la logica. Notai anche che mentre gli uomini già mangiavano – ci vuole meno tempo ad arrivare al fabbricato dall’entrata principale della Moschea rispetto a quella posteriore – e avevano tutti i piatti, a noi, arrivate sul posto e senza sedie, mancavano anche i piatti. Non voglio dare una risposta, anzi non lo voglio sapere, non voglio sentirmi dire “perché è così”. Posso dire che mi pare che si tenti in tutti i modi di non facilitar loro la vita. E perché alle donne non è permesso avere una vita facile? Forse davvero loro lavorano e non hanno bisogno di aspettare la mensa, senza smettere di pregare di avere uomini migliori. Anche i veri musulmani – e sono tutti quelli che conosco – dovrebbero ribellarsi a questa tendenza. Proprio perché l’Islam è tutto quello che mi hanno raccontato: è umanità, è libertà, è apertura, è dinamismo e bilanciamento. Il dinamismo di queste donne non l’ho visto. Ho visto la foga di sopravvivere. (continua…)

Alice Rinaldi
(23 agosto 2012)