Sono le sette del mattino, i ragazzi ospitati da A28, centro notturno per minori afghani in transito di via Aniene, dormono. Il piccolo ingresso, situato accanto alla sede di Intersos che insieme a Civico Zero gestisce il centro, sembra l’accesso a una magica tana del bianco coniglio, oltre che un rifugio dal freddo mattutino di dicembre. Rudy e Abbas, l’operatore e l’interprete, preparano thè, latte caldo, biscotti e cioccolata spalmabile. Pensili e mobili sono colorati dalle illustrazioni degli operatori che spiegano le parole italiane come forchetta, maglione, marmellata. Sulle pareti della sala da pranzo – grande, pulita e nuova – ci sono invece i disegni dei più di 600 ragazzi ospitati dal centro, che mercoledì 5 dicembre ha festeggiato il suo primo anno di vita.
“Abbiamo condiviso i risultati ottenuti su un problema che va ‘tampinato’ costantemente” dichiara Alessandro Uberti responsabile di A28. “Non è mancato nessuno all’appello, erano presenti tutti i tecnici, anche quelli di strutture collaterali ad A28: dai volontari delle parrocchie agli operatori della Tensostruttura di Tor Marancia.” Durante l’evento sono intervenuti Nino Sergi presidente di Intersos, Valerio Neri direttore generale di Save the Children, Marco Rotelli segretario generale di A28, Margherita Occhiuto della Protezione minori del comune di Roma e Vincenzo Spadafora, garante nazionale per l’Infazia e l’Adolescenza, il quale lunedì prossimo parteciperà a un incontro presso la Farnesina per la firma di un protocollo che predisponga le forze dell’ordine a un’attenzione particolare e più elastica nei confronti dei minori in transito.
“Ad A28, i ragazzi si riappropriano della propria adolescenza, si decomprimono. Sanno di essere ancora immersi nel disagio ma capiscono che il peggio è passato.” Rudy Mesaroli, operatore dell’unità di strada di Civico Zero e coordinatore dell’operatività di A28 Centre, ricorda la sera del lunedì precedente quando un quindicenne afghano si è esibito in un divertente ballo ritmato dalle mani dei compagni di viaggio. Tale convivialità è prassi, eccezion fatta per serate più turbolente come quella di venerdì scorso, quando il centro ha ospitato trentadue persone; i posti letto sono ventiquattro. Così madri e bambini hanno dormito insieme e Rudy si è procurato qualche materasso in più. “Capita che ospitiamo nuclei familiari, se i bambini hanno meno di dodici anni garantiamo la presenza della madre, il padre viene portato alla tensostruttura di Tor Marancia, comunemente denominata “tendone”. Se le situazioni sono assai critiche, può capitare che accogliamo anche il padre” racconta Rudy. In un anno il centro ha ospitato dieci nuclei familiari.
L’euforia collettiva della sera lascia spazio al silenzio del nuovo giorno. I giovani afghani, ancora intorpiditi dal sonno, si preparano a indossare la veste necessaria per l’ennesima giornata in strada: l’invisibilità. Rilassati, mentre fanno colazione, ascoltano i racconti di Rudy, non capiscono l’italiano ne seguono l’intonazione e guardano, incuriositi ma sospettosi, la giovane che veloce prende appunti; Abbas, afghano ventisettenne da sette anni in Italia, li ha avvisati della presenza di una giornalista: “non saranno scattate foto ne’ verranno fatti nomi”, li rassicura.
“La loro diffidenza ha ragioni profonde” spiega Rudy. “Nell’estate 2011 sono stato a Parigi per uno scambio europeo. Ho rincontrato un po’ di ragazzi che a Roma avevano dormito da noi. Alcuni mi hanno salutato, altri hanno temuto che li stessi seguendo,” spiega Rudy. Il loro obiettivo è arrivare nei paesi del nord Europa senza essere segnalati altrove. Altrimenti rischiano di diventare dei “dublinati”, essere cioè ‘rispediti’ – come stabilisce la Convenzione di Dublino – nel paese europeo in cui è stata fatta la prima registrazione.
“Le impronte digitali non saltano fuori subito, possono passare mesi, a volte sostengono addirittura il colloquio in Commissione. Da poco ne è tornato uno dopo aver soggiornato otto mesi in Norvegia, seguiva già il programma di reintegro: scuola, lavoro, palestra. Un palestinese aveva la fidanzata e non ha avuto il tempo di avvisarla”. Non vengono avvisati, temono possano fuggire. Prelevati a sorpresa li portano in centri di permanenza e appena possibile li mettono su un aereo. Spesso i ragazzi solo dopo l’atterraggio capiscono di essere stati rispediti in Italia. “Tre giorni fa, ha dormito qui un ragazzo nostro ospite a giugno. Era riuscito ad arrivare in Svezia e ieri non è tornato. Sarà ripartito, ma ormai è destinato a fare il gioco dell’oca. E’ raro che riusciamo a convincerli a rimanere. E’ un dispendio di energie e di opportunità: compiuti i diciotto anni perderanno molti privilegi” si rammarica Rudy.
“I ragazzi dublinati vedono l’Italia come un paese che li ha traditi e che li rivuole indietro. E per desiderarli così tanto pensano che ci siano degli interessi economici. Cominciano a detestare il nostro paese” spiega Rudy, psicologo attento alle dinamiche interiori dei ragazzi. “Spesso mettono in atto strategie di resistenza che rischiano di sconfinare nella patologia. Ricordo un giovane sudanese che si rifiutava non solo di imparare la lingua italiana ma anche di ascoltarla, rinchiudendosi in isolamento totale. Questa situazione su un adolescente ha forte impatto, inserendosi nella sua formazione identitaria”. Ad Ostiense vivono in strada persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato, di conseguenza questi giovani afghani pensano che lo Stato italiano non può garantirgli quello che li ha spinti a scappare. “Grazie al passaparola e a internet i ragazzi sanno che paesi come Norvegia, Svezia e Inghilterra hanno dei programmi di alto livello per inserire i rifugiati in una nuova vita sociale” spiega Alessandro Uberti.
Sono le otto, anche i più piccoli raggiungono la sala e Rudi riscalda altro latte. Maria ha circa tredici anni, si inserisce nei racconti degli operatori, esprime pensieri e pone domande. E’ nata in Italia da madre serba e padre croato. E’ nel centro insieme a quattro fratelli e alla madre, non hanno dove dormire e sulle spalle portano una storia complessa: dall’Italia in Francia, dalla Francia alla Croazia per tornare in Italia. E’ un caso speciale, dormono anche loro nel centro per qualche notte. In pochi minuti i cinque fratelli, di cui il più piccolo ha meno di cinque anni, esplodono nella loro esuberanza bambina. E sulle foto del matrimonio della sesta sorella, album che la madre porta sempre con sé, si annodano e accavallano le voci bianche. Narrano di dure e infelici vite zingare con l’energia di un futuro che sarà diverso. Adriana se l’è promesso: si sposerà per amore e non prima dei 26 anni. Non le importa se la tradizione sostiene che arrivare nubili ai diciotto equivale a essere una zitella.
Divertiti anche i giovani afghani vogliono vedere le foto ma è tardi è ora di andare. Sono puntuali e rispettosi. “Non ho mai visto un solo atteggiamento violento” dichiara Alessandro Uberti. Purtroppo però le violenze le subiscono. “La dimensione del viaggio impressiona noi adulti, loro lo descrivono con le parole di un adolescente: un’avventura, un’impresa fatta di momenti eroici,” racconta Alessandro “poi emerge il sommerso, i segni sul corpo, i ricordi rimossi o taciuti. E ti rendi conto che questi viaggi sono fatti di incontri. Incontri con adulti. E’ l’adulto il vero pericolo.” “Hanno quindici sedici anni e hanno fatto esperienze che di solito fa un uomo di quarant’anni” racconta Abbas che è colpito dal fatto che questi suoi connazionali abbiamo visto morire la gente. Abbas ha cinque fratelli e una sorella. Il padre ha una sartoria e tutti i figli maschi vivono all’estero per frequentare l’università.
“Non solo bisogni di prima necessità, cerchiamo di stimolare i ragazzi con attività come visite museali, concerti, partite sportive” racconta Rudy. “Con il Museo Nazionale d’Arte Orientale di via Merulana organizziamo laboratori partecipati. Questo luogo per noi è di vitale importanza, i ragazzi trovano nel percorso espositivo il loro paese. Riscoprono un altro Afghanistan, a volte provano senso di colpa, e si stupiscono che l’Italia dedichi a loro un museo. L’anno scorso abbiamo anche portato ragazzi senegalesi e ivoriani alla partita Lazio-Fiorentina” – di quest’ultima Save the Children è uno sponsor -. “Ricordo il concerto degli Stomp, artisti che con oggetti comuni fanno musica e quello di Caparezza a Capannelle. C’era chi non era mai stato prima a un concerto. Sono state esperienze davvero uniche”
M. Daniela Basile(6 dicembre 2012)