Volete sapere come si fanno i dread? Diffidate di chi vi propina colla di pesce, zucchero, miele, cere… E soprattutto state lontani da chi vi dice che i dreadlocks non si possono lavare! Parola di Tidiane Ndiaye, alias Shrek, il gigante buono del Senegal che al mercato di via Sannio a Roma ha un banco fatato dove regnano musica, allegria e tanti tanti colori. Tutti quelli dell’Africa, impressi in stoffe variopinte che sotto le abili mani di Tidi e dei suoi prodi compagni Mansour e Mbaye – in arte Ciuchino e Gatto con gli stivali – si trasformano in borse e vestiti, sciarpe e cappelli. E ancora bracciali, collane, djembé, treccine e dreadlocks. Nel video Tidi ci mostra come si fanno i dread in modo naturale: armatevi di uncinetto, pazienza e molti cerotti, perché il rischio di pungersi è alto, ma l’unico modo di realizzare dei dreadlocks che non si sciolgono dopo poche docce è batterli per bene.
Sappiate che portare i dread ha un significato molto profondo, di dolore e riscatto. “Molti pensano che i dreadlocks siano nati in Jamaica, in realtà risalgono addirittura ai tempi di Abramo e la loro enorme diffusione si ebbe in Africa durante la colonizzazione: gli schiavi che venivano deportati in America e in Europa non potendo pettinare i capelli ricorrevano infatti ai dread”. Per trecento anni l’Africa è stata svuotata della sua gente: “La schiavitù ha prodotto popoli senza radici. E quando hanno conquistato la libertà i loro oppressori per evitare la ribellione hanno detto che erano stati gli africani a vendere i propri fratelli”. Dopo l’abolizione delle colonie rimasero solo due simboli a ricordare la schiavitù: i dreadlocks e il tricolore verde, rosso e giallo che simboleggia la vegetazione dell’Africa, il sangue degli schiavi che hanno perso la vita e la terra riarsa, bruciata dai coloni per portare i popoli alla fame. “I jamaicani sono stati i primi a viaggiare e conoscere la vera storia. Hanno adottato il tricolore e i dreadlocks, simboli dell’identità dell’Africa, come forma di rivoluzione, per dire: ‘eccoci qua, siamo sempre noi, perdoniamo ma non dimentichiamo’”.
Tidi è figlio di questa cultura violata. La sua lingua, il wolof, non si insegna nelle scuole pubbliche del Senegal perché l’idioma ufficiale è il francese. Lui l’ha imparato in una scuola apposita ed è cresciuto con i ritmi della danza folkloristica africana. Oggi insegna entrambi, sia agli europei appassionati di cultura africana, sia agli africani che non conoscono le proprie origini: “Devi sempre tornare alla base per trovare te stesso: se un albero non ha radici salde il vento lo porta via”.
Sandra Fratticci (2 ottobre 2014)
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