Hassan, rifugiato afgano: C’è tanta gente che muore, bisogna cambiare le cose

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Foto ilustrativa. Photo credit: Zoriah Miller

“Quando stai su un gommone e non sai nuotare, quando vedi il mare e le stelle che brillano sulla sua superficie, là per la paura non capisci niente e pensi che siano i pesci.” Ricorda così il suo viaggio verso l’Europa Hassan, un rifugiato afgano arrivato in Italia nel 2010 dopo un lungo viaggio. A casa sua, nella privincia di Logar in Afganistan, la guerra c’era già quando è nato. “Non so bene quanti anni ho”, racconta il giovane uomo che dall’aspetto ne dimostra una ventina, massimo una trentina. Hassan non è sbarcato sulle coste italiane, il suo è stato un percorso diverso. È partito per l’Europa dalla Turchia e su un gommone è arrivato in Grecia. Da là sotto un camion fino all’Italia. “Sono nove anni che ho lasciato il mio paese,” ricorda.

Hassan oggi lavora come un mediatore linguistico in un centro SPRAR. La sua esperienza personale da una parte lo aiuta a relazionarsi con altri ragazzi appena arrivati in Italia, dall’altra spesso gli fa rivivere il proprio passato. “Delle volte è pesante, perché quando senti la storia di una persona e senti tutti i problemi che aveva, ci pensi, anche prima di dormire ci pensi”, spiega Hassan. “So com’è. So che paura hai quando parti, che sentimenti hai durante il viaggio. Ci sono tante difficoltà, c’è tanta gente che muore”, aggiunge.

Dopo l’ultimo grande naufragio nel Mediterraneo gli è dispiaciuto molto sentire un’altra volta una notizia del genere. “È una tragedia se le persone scappano per salvare le loro vite e muoiono a pochi chilometri di distanza dall’arrivare a salvarsi, a rimanere liberi”, dice Hassan. Secondo lui è importante che gli altri capiscano chi sono le persone che salgono sui barconi e quali problemi devono affrontare nei propri paesi. “Io non sono partito per lavoro, per soldi, o per qualsiasi altra cosa. Sono partito, perché rischiavo veramente la vita“, spiega. “Quando le persone scappano, sanno che rischiano di morire. Vedono, però, quel dieci per cento di probabilità con il quale possono rimanere vivi e ci provano.”

Secondo il ragazzo la chiusura di Mare Nostrum non è stata la scelta giusta e Frontex oggi non basta per gestire la situazione. Anche la questione degli scafisti è, come spiega Hassan, più complicata di quanto sembri. “Quando prendi una barca, ci sono i trafficanti che raccolgono i soldi e chiedono se c’è qualcuno che vuole guidare la nave,”racconta. Chi si propone sono secondo lui spesso le persone che non hanno soldi, ma comunque vogliono imbarcarsi: “Il trafficante ha paura, non rischia la vita per portare la gente lassù”, spiega.

Quando il discorso tocca la questione delle possibili soluzioni della situazione nel Mediterraneo, Hassan ha le idee chiare: qualcosa deve cambiare. Lo scenario migliore, dice, sarebbe la creazione dei corridoi umanitari. “Ormai lo sappiamo: la gente che scappa ha problemi seri. Se vogliamo essere solidali, veramente solidali e vogliamo salvare la gente, la possiamo salvare anche da lì.”

Per motivi di privacy il nome del protagonista è stato cambiato.

Petra Barteková
(4 maggio 2015)

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