Tortura, l’inferno dei migranti nei campi di detenzione libici

Tortura
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Rapimento, tortura, riscatto. Quella che potrebbe sembrare la sintetica trama di un film poliziesco è per molti un rituale da dover affrontare durante il viaggio in direzione dell’Europa. Non si può parlare di tortura oggi senza citare il caso della Libia, un paese che si è guadagnato a buon diritto l’appellativo di “fabbrica della tortura”.
E proprio gli accordi con la Libia sono l’oggetto del  contrastato Memorandum Italia-Libia del 2017  che il governo si impegnato a riiscrivere in tempi brevi in occasione dell’approvazione al Senato, il 7 luglio, del testo sul rifinanziamento delle missioni all’estero.

La fabbrica della tortura

Il webinar di MEDU e Amnesty International Italia del 26 giugno

Libia, la fabbrica della tortura è il titolo dell’ultimo rapporto MEDU che raccoglie centinaia di testimonianze di migranti torturati in Libia e anche del webinar tenutosi lo scorso 26 giugno, organizzato da MEDU e Amnesty International Italia. 
“Il caso della Libia consente di misurare l’ipocrisia della comunità internazionale quando si tratta di immigrazione”, spiega il presidente di MEDU Alberto Barbieri “Non soltanto l’Italia rinnova il Memorandum d’intesa del 2017 definendo ‘centri di accoglienza’ quelli che in realtà sono dei veri e propri luoghi di detenzione arbitraria in cui si pratica sistematicamente la tortura, ma il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU ha deciso soltanto qualche giorno fa di inviare dei commissari in Libia, quasi come se si trattasse di un fenomeno recente.”
Il rapporto pubblicato da MEDU lo scorso marzo, che è il frutto della raccolta di circa 3000 testimonianze di migranti transitati in Libia dal 2014 al 2020 offre uno spaccato impressionante: l’85% di loro ha subito tortura o trattamenti inumani e degradanti, circa la metà ha subito un sequestro, 9 persone su 10 hanno visto qualcuno morire, venire ucciso o torturato, molti di loro sono stati costretti a torturare per sopravvivere.
A peggiorare la situazione sono intervenuti gli sviluppi bellici del conflitto civile che da anni imperversa nel paese”, aggiunge Samuele Cavallone di MEDU SiciliaL’avanzata di Haftar, che si è fatta più aggressiva a partire dal 2019, ha comportato un coinvolgimento massiccio dei migranti negli scontri a fuoco tra le fazioni ma anche il bombardamento degli stessi centri di detenzione, come è il caso di Tajoura, fonte primaria di guadagno per le milizie. Tutto questo si va ad aggiungere ad un quadro contraddistinto da fenomeni di neo-schiavismo – a Tazirbu esiste un fiorente mercato degli schiavi da impiegare nelle miniere d’oro – e da uno strapotere della stessa guardia costiera, che prima autorizza le partenze al prezzo di un cospicuo riscatto e poi respinge sulla costa gli stessi migranti raccolti nei centri”.

La sistematica violazione dei diritti umani in Libia

Secondo l’UNHCR sono circa 1400 migranti detenuti nei centri di detenzione ufficiali. Tutti gli altri, il cui numero è ignoto ma che si stima nettamente superiore, si trovano nei centri informali. “Abbiamo deciso di restare in Libia nonostante i limiti, i dilemmi, le complessità, non perché pensiamo che la nostra presenza sia risolutiva”, interviene Carlotta Sami di UNHCR, “ma perché esiste un sistema consolidato di abuso, sfruttamento e violenza che vogliamo combattere. La Libia è un paese che non ha aderito alla Convenzione di Ginevra, quindi non riconosce lo status di rifugiato, anche se sul suo territorio sono presenti circa 49000 titolari di questo status, di cui 11000 sono bambini. La legge libica prevede ancora la possibilità di ricorrere ai lavori forzati. Non si può risolvere il problema senza pensare ad interventi strutturali sullo Stato libico”.
La sistematica violazione dei diritti umani in Libia, tuttavia, sembra non porre freno alla pratica di esternalizzazione delle frontiere portata avanti dai paesi europei: “Secondo l’Associated Press l’Unione Europea ha stanziato negli ultimi anni circa 400 milioni di euro per formare la guardia costiera libica”, spiega Riccardo Noury di Amnesty International Italia “Il Tribunale di Messina, lo scorso 28 maggio, ha condannato a 20 anni di carcere un guineiano e due egiziani al soldo del noto guardiacoste libico Bija per aver commesso sistematicamente atti di tortura in un centro di detenzione ufficiale in Libia. Questo significa che il Tribunale riconosce che l’Italia e l’Unione Europea stanno finanziando direttamente dei luoghi di tortura”.

La strategia della tortura

La tortura a scopo di estorsione è una pratica tristemente consolidata dalla caduta di Gheddafi, nel 2014. Una strategia impiegata dalle milizie o da singoli criminali, “legate ad al-Sarraj e che godono di totale impunità perchè ne sostengono il governo illegittimo e detengono le armi” spiega Michelangelo Severgnini che da anni riesce a mettersi in contatto con i migranti intrappolati nell’inferno libico. Exodus, fuga dalla Libia è il lavoro audio documentaristico che, dall’estate di due anni fa, raccoglie i loro messaggi e testimonianze dirette. “Con la morte di Gheddafi i migranti venivano rapiti e torturati su tutto il territorio libico, poi prevalentemente nella zona occidentale. Ad est l’esercito nazionale fa rispettare un certo ordine e non concede agibilità alle bande criminali” racconta una delle voci di Exodus. Le vittime predilette sono migranti e cittadini libici con una buona disponibilità economica. Il traffico di migranti è una tra le varie fonti di finanziamento delle bande criminali ma non la più redditizia: nella gerarchia di attività illegali la più fruttuosa è sicuramente la rivendita di petrolio trafugato e reimmesso nel mercato europeo. Piuttosto, il riscatto è talvolta così alto che le famiglie non riescono a supportarlo. Da lì l’inevitabile indebitamento, la richiesta di denaro sempre più alta, la percentuale da pagare alla mafia locale affinché consegni il denaro ai rapitori. La libertà, per alcuni, ha un costo più alto della vita.

Tortura ed estorsione, la campagna per la libertà di Abdul

Exodus, fuga dalla Libia. Dalla pagina ufficiale il 15 maggio parte la campagna per liberare Abdul

Lo scorso 26 giugno si è celebrata la 22esima Giornata Internazionale in favore delle Vittime della Tortura, istituita dall’Assemblea Generale dell’ONU il 12 dicembre 1997. Il 23 giugno, a soli tre giorni dalla ricorrenza, un post sulla pagina ufficiale di Exodus annuncia la liberazione di Abdul, giovane migrante prigioniero di una banda criminale la cui liberazione è stata possibile grazie ad un raccolta fondi online. La notizia è stata data dopo aver appurato che si trovasse in un posto sicuro, a questa ha fatto seguito un messaggio audio di ringraziamento. Ma il felice annuncio è accompagnato dalla possibilità che Abdul, come i 700.000 migranti intrappolati nelle carceri illegali libiche, possa essere nuovamente sequestrato.
“Nei mesi scorsi sono stato contattato da Justin, ragazzo sud-sudanese conosciuto online, che dopo la liberazione era riuscito a ritornare a Karthum con l’aiuto dell’OIM. Justin mi ha raccontato la storia di Abdul, migrante sequestrato da criminali che minacciavano di torturarlo a morte se non avessero ricevuto i soldi”, racconta Michelangelo. La richiesta di riscatto era accompagnata dall’immancabile foto del prigioniero, macabra strategia consolidata dai rapitori, ammanettato al muro ed evidentemente stremato. Il 15 maggio dalla pagina di Exodus parte una raccolta fondi online per liberare Abdul. “È stata una decisione controversa” per la natura immorale e illegale della richiesta. Solo un mese dopo i carcerieri hanno avanzato nuove richieste di denaro giustificate dal costo di un improbabile vitto. I testimoni dell’inferno libico, prigionieri e schiavi, raccontano di non aver mai ricevuto nulla se non un po’ d’acqua ed il necessario per sopravvivere. A questo si assommano le vessazioni, le torture e la possibilità di morire tanto di fame quanto per la violenza. Le donazioni ricevute durante la campagna sono state tanto generose da riuscire a raggiungere non solo la somma necessaria alla liberazione ma, con il denaro in più, è stato possibile intervenire anche in un altro caso.

 

Silvia Proietti
Giada Stallone
(8 luglio 2020)

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