Identità patchwork ma ognuno a modo suo: contro la retorica nazionalista

Intervista a Filippo La Porta sul suo libro Alla mia patria ovunque essa sia

'Patria', 'Identità': nella lingua e nella tradizione culturale. Fonte lastampa.it
Patria, Identità: nella lingua e nella tradizione culturale. Fonte lastampa.it

Mentre, con la globalizzazione, si mescolano popoli, lingue e culture, la strada della convivenza democratica è ingombra di proposte culturali che vanno nella direzione opposta del nazionalismo e del sovranismo, che, pur non essendo sinonimi, esaltano entrambi l’identità nazionale e l’attaccamento alle radici del luogo in cui si nasce, rafforzano i confini intesi come barriere ‘naturali’. Una retorica che pretende di offrire risposte al bisogno umano di radicamento e appartenenza, oscurato dalla globalizzazione omologante. Risposte sbagliate a un bisogno autentico che merita una riflessione culturale più profonda.
Come fa Filippo La Porta, che nel suo ultimo pamphlet ragiona sui concetti di patria, identità nazionale, radici e appartenenza. In Alla mia patria ovunque essa sia egli sostiene che la patria ha a che fare con l’immaginario culturale molto più che con il luogo di nascita, una patria scelta come luogo d’elezione, dove si costruisce la propria identità, fatalmente meticcia e composta di frammenti, con radici multiple da reinterpretare e rielaborare.

Il titolo del libro nella prima parte, “alla mia patria”, evoca sotto forma di dedica l’amore per la propria patria, ma nella seconda parte, “ovunque essa sia”, sembra smentire questa appartenenza. Allora che fare del sentimento legato all’idea di radici? Non è forse un sentimento autentico?
“La patria è una cosa bellissima, diversa dallo Stato, si rivolge alla nostra parte razionale ma anche a quella affettiva, immaginaria. È il fondo umido su cui si costruisce il senso dello Stato, però lo precede, nel senso di un’appartenenza profonda. Il mio libro è una polemica esplicita contro la retorica delle radici, basata oggi su un discorso formulato in modo sbagliato e aggressivo, su una ricerca di identità contro qualcuno. Invece, secondo me, le uniche vere radici sono quelle che uno si sceglie. Ciò non significa che il legame con il luogo in cui si nasce non sia importante, anzi il radicamento è un bisogno autentico – Simone Weil lo include tra “i bisogni dell’anima” –, ma nel mondo globalizzato più importanti sono i consensi culturali, quindi il legame con il territorio è filtrato attraverso l’immaginario.
Un immigrato che vive e studia in Italia, che impara la nostra lingua e la ama al punto di scrivere un romanzo in italiano ama l’Italia molto più di tanti nostri deputati, perché ha scelto di radicarsi nella nostra tradizione culturale, nella lingua di Dante, di Manzoni. Questi migranti sono italiani per vocazione e per scelta”.

Alla mia patria ovunque essa sia, il libro di Filippo La Porta
Alla mia patria ovunque essa sia, il libro di Filippo La Porta

Retorica nazionalista: dove nascono gli stereotipi razzisti

Lei scrive che i migranti “prefigurano una condizione che oggi appartiene a tutti” e, in un altro passo, che oggi in Occidente l’individuo “ha la possibilità di costruire la propria identità”. Considerando, però, la realtà conflittuale dei nostri quartieri multietnici e gli orientamenti culturali contro lo straniero, non c’è il rischio della costruzione di identità xenofobe e razziste?
“La parola chiave è conflitto. Il razzismo, secondo me, non è un sentimento naturale ma una cosa derivata, è nelle situazioni conflittuali, sia sociali che interpersonali, che si ricorre ai cliché, agli stereotipi a disposizione. Quindi bisogna disinnescare il conflitto, ridurre le occasioni di attrito, e questo è compito dello Stato”.

Oggi si rafforza l’idea della necessità di difendere i territori nazionali erigendo barriere. Lei intitola un capitolo del suo libro “Confini come passaggi”. Che significa?
“L’essere umano ha bisogno di confini attorno a sé per riconoscere la realtà, per distinguere e pensare, ma io intendo i confini come diritto accessibile a tutti, come appartenenza non discriminatoria. Tempo fa in Tv Giorgia Meloni disse che della bellissima canzone Imagine di John Lennon rifiutava il testo perché parla di un mondo senza confini e rivendicava con enfasi di essere italiana, donna, madre ecc. Io le avrei obiettato che sì, per definire un’identità ci vogliono confini e ha senso che esistano, ma ognuno deve decidere dove disegnarli. Come fa Dante che sente di appartenere a Firenze, ma in esilio scrive che la sua patria è il mondo, come il mare è dei pesci.
Storicamente, il nazionalismo ha avuto un volto aggressivo e bellicista, quello che proprio non va è quel “prima gli Italiani”, slogan che non ci porta da nessuna parte. L’appartenenza a una tradizione nazionale è il frutto di una scelta. L’Italia ne ha molte, se mi volgo indietro io vedo un’Italia cosmopolita, creativa, con il forte senso della bellezza del Rinascimento, con la fatica del lavoro degli emigranti nel ’900 e con un certo spirito umanitario, generalmente riconosciuto nel mondo; ma vedo anche un’altra Italia, quella faziosa e litigiosa, quella del fascismo, gretta, calcolatrice e servile. Insomma c’è un’anima sognatrice e un realismo brutale e calcolatore, ben rappresentati da Thomas Mann nel romanzo Mario e il mago.
Io scelgo una tradizione, quella dell’Italia cosmopolita e tollerante, quella ‘umile’ di Carlo Levi e Dante, ma scegliere una tradizione ed escluderne un’altra non significa discriminare le persone.”

L’identità si costruisce e ridefinisce nelle relazioni con gli altri, e ognuno – lei scrive – deve sapere che immagine dà e vuole dare di sé stesso. Questo presuppone la consapevolezza di sé, che però sembra essere di pochi. La sua non rischia di essere una proposta elitaria?
“Il rischio probabilmente c’è, ma io mi relaziono agli altri come individuo e non come cultura di appartenenza, anche perché la cultura dell’altro può essere antitetica ai valori della mia. Io voglio ragionare in termini di rapporti tra individui, che costruiscono la propria identità mettendo insieme tanti frammenti in un modo unico e irripetibile. Abbiamo tutti un’identità patchwork, ma ognuno a modo suo: io sono un po’ cattolico, un po’ buddista, mi piace la musica cubana e non gli stornelli romani, mi piace la cucina giapponese.
Mi rendo conto che il mio può risultare un discorso elitario, ma per me ‘Individuo’ significa un soggetto con capacità critica e autonomia di pensiero, e non mi rassegno all’idea che da una parte ci sia la massa omologata e dall’altra pochi individui critici; ognuno di noi è un po’ massa eterodiretta un po’ individuo consapevole e responsabile”.

Identità, patria e politica. Le utopie minimaliste di oggi

L’amore per la patria, quella scelta, – si legge nel libro – per non essere vuota retorica deve diventare un’etica di comportamento quotidiano. Vede nelle nostre società poco attente all’interiorità embrioni di cambiamenti in atto?
“Quelli che scendono in piazza – come in questi giorni in Bielorussia o qualche settimana fa in America per Floyd – hanno scelto sé stessi come cittadini attivi e responsabili e già oggi costruiscono una comunità diversa. Questa è la politica che mi piace, quella che trasforma ora le persone, la politica educativa e autoeducativa. E in Italia vedo i movimenti per l’ambiente, le pratiche di cittadinanza attiva, le iniziative di autorganizzazione e cooperazione nei quartieri multietnici. Sono le utopie minimaliste, di cui si parla troppo poco”.

Luciana Scarcia
(5 settembre 2020)

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