Lo spettacolo teatrale Maison de Dieu, opera creata dai partecipanti del laboratorio di teatro l’Ombra che ride, si terrà il 3 e 4 ottobre 2020 allo Spazio Rossellini. Cecilia Bartoli di Asinitas, organizzatrice dell’evento, e il regista Antonio Viganò, parlano dell’importanza del teatro come luogo di integrazione, di riscatto sociale e di trasformazione dell’individuo.
Un’esperienza di teatro comunitario
“Il teatro è un veicolo e una grossa possibilità di costruzione di legami comunitari, interculturali e intergenerazionali – dichiara Cecilia Bartoli, psicologa e psicoterapeuta –. Attraverso il laboratorio di teatro sociale, già da diversi anni Asinitas ha dato vita a un’esperienza di teatro comunitario: un gruppo di uomini e donne con età differenti, composto sia da stranieri, richiedenti asilo e rifugiati, ma anche da ragazzi italiani che possono essere attori, educatori, volontari o semplicemente amanti del teatro. Il laboratorio ogni anno è condotto da un diverso regista e quest’anno è tenuto da Antonio Viganò, direttore del Teatro la Ribalta, una compagnia teatrale, con sede a Bolzano, costituita in maggioranza da attori in situazione di ‘disagio psichico’. Viganò, quindi, è un regista molto esperto nel fare teatro con persone con situazioni di vita ‘differenti’ da quelle ordinarie, se così si può dire”.
“Asinitas – interviene il regista Viganò –, conoscendo il mio lavoro, mi ha proposto di collaborare. Le loro attività hanno come scopo l’inclusione sociale di uomini e donne extracomunitari che vivono a Roma. Tra queste attività, c’è un progetto di inclusione culturale che parte dalla pratica teatrale in forma laboratoriale fino alla presentazione pubblica di un’opera creata dai partecipanti. Così è nato lo spettacolo teatrale Maison de Dieu. Ci siamo ritrovati con obiettivi e finalità comuni: creare un gruppo coeso e con una forte empatia che andasse oltre la condizione sociale di ‘migranti’ per essere, almeno in quell’ora di spettacolo, ‘come tutti’: capaci di produrre dei segni, delle parole, dei gesti e una coreografia che li raccontassero non più come ‘naufraghi’, ma come uomini e donne. Quindi nessuna concessione alla compassione, ma con la voglia di misurarsi con un’arte che li mette alla prova”.
Il teatro come luogo di integrazione
“Come forma di integrazione, come strumento per avvicinare le persone, – prosegue Cecilia Bartoli – non c’è niente di efficace come il teatro. È un’esperienza relazionale molto forte, che crea una profonda empatia fra i partecipanti e offre la possibilità di conoscersi al di là di quello che può essere l’etichetta o l’immagine di superficie. Il teatro consente a tutti noi di esprimere l’alterità nascosta dentro di sé, di incontrarsi su un piano molto profondo e soprattutto differente da quelli che sono i canoni normali di relazione. I codici culturali saltano, così come le convenzioni sociali. Spesso incontriamo le persone straniere solo in contesti precostituiti, come nei centri di accoglienza o in attività specifiche a loro dedicate, un po’ come se fossero in degli ‘acquari’ dove i ruoli sono già prestabiliti. Il teatro, invece, scardina completamente tutto questo: a teatro siamo tutti ‘stranieri a noi stessi’, perché nessuno di noi conosce quale parte di sé esprimerà e tirerà fuori. Per questo è lo strumento interculturale per eccellenza di incontro dell’altro da sé, ma anche all’interno di sé”.
“Questo è quello che rende il teatro, ancora oggi, indispensabile rispetto ad altri mezzi – concorda Viganò –. Il mettersi alla prova dentro il gioco del teatro richiede uno sforzo grande: riconoscere il proprio corpo e dare forma alle proprie emozioni; cercare lingue e strumenti per raccontare e raccontarsi; lavorare collettivamente; imparare testi in italiano; annoiarsi, ridere e innamorarsi; assumersi la responsabilità di essere lì di fronte agli altri; sbagliare molto per poi trovare un piccolo momento, un attimo, che magicamente riassume tutto quello che si voleva fare e dire e che ci rende felici. Un teatro che riscatta i migranti proprio nel momento in cui gli si offre la possibilità di essere qualcos’altro, di andare oltre l’etichetta sociale che abbiamo ‘impresso’ sul loro volto e sui loro corpi. Non negando la loro storia, la loro vita e la loro tragedia, ma, attraverso il teatro, trasfigurandole, per renderle un’esperienza umana visibile e riconoscibile”.
Il teatro come terapia
“Il teatro – continua Viganò – è lo specchio delle nostre malattie, dei nostri incubi e delle nostre tragedie. Bisogna comprendere che senza il dolore della ferita, della mancanza, esiste solo l’uguale, il consueto, quello che conosciamo già. È attraverso la ‘ferita’ che andiamo oltre, che riusciamo a immaginarci in altro modo. La ‘ferita’ muove i nostri desideri e le nostre volontà, la nostra voglia di andare in un altrove. È questa la condizione esistenziale del teatro, un ossimoro: solo la ‘malattia’ lo rende sano, vivo e necessario”.
“Il teatro può avere una valenza terapeutica enorme – afferma Bartoli –, ma solo se la terapia non ne costituisce l’obiettivo diretto. Quello che succede nel processo teatrale, soprattutto se contenuto e affiancato da figure di cura, può essere fortemente trasformativo per la persona. C’è infatti un’acquisizione di strumenti espressivi e c’è la costruzione di nuovi legami di amicizie e di affetti, e questo è di per sé terapeutico. Quindi c’è un primo livello, di superficie, che sicuramente fa bene. Ma ci può essere anche un piano più profondo, che è quello di poter veramente ‘integrare’ delle parti di sé, ma questo accade solo se non le si vanno a cercare: deve essere qualcosa che succede spontaneamente, incidentalmente, all’interno del percorso. E non è detto che accada per tutti”.
“La ‘scommessa’ – conclude il regista Viganò – di fare un’opera teatrale all’altezza delle nostre aspettative artistiche, nonostante il tanto lavoro, si può anche perdere. Ma è questo rischio che rende la nostra avventura avvincente e necessaria. In ogni caso ne usciremo tutti, attori e spettatori, un po’ trasformati”.
Vincenzo Lombardo
(30 Settembre 2020)
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