Un viaggio in moto nell’Afganistan dei talebani

Il libro reportage e le foto di Emilio Radice, due anni dopo l’occupazione talebana del Paese

Emilio Radice ha approfittato del primo spiraglio di pace dopo decenni di guerra per compiere un viaggio che aveva nel cuore da oltre cinquant’anni. E cosi, quando il 15 agosto 2021 i talebani occuparono Kabul e assunsero il controllo dell’Afganistan mentre gli americani si affrettavano a fuggire, capì che era arrivato il momento: il tempo di attendere un anno, per aspettare che i talebani potessero prendere il completo controllo del Paese, in sella ad una nuovissima Aprilia Tuareg 660 soprannominata Lolita per la differenza di età, a metà aprile del 2023 è partito per l’Afganistan.
In solitaria. Come tanti altri viaggi che, sempre in moto, aveva già compiuto, a modo suo: poco pianificati, per permettere allo stupore di risvegliarsi nell’incontro con qualcosa di nuovo, di lontano, di non previsto e di autentico, frutto di tante variabili. Una sola certezza: la voglia di incontrare l’altro, l’Uomo, l’umanità, di andare a vedere, a toccare, a conoscere cercando di tacere i luoghi comuni e i pre-giudizi condivisi, in pace. Viaggio di scoperta anche di sé, del sé in viaggio. Perché quando si viaggia così si torna a casa sempre diversi.
Un viaggio che poi è diventato libro e fotografie, parole scritte soprattutto per capire, per fissare impressioni, emozioni, solitudine ed incontri. “Oltre il confine della Paura. Viaggio in moto nell’Afganistan dei talebani”, edito da Neos Edizioni e presentato alla Libreria Eli alla presenza di Giampaolo Cadalanu e Alessandra Baduel, è frutto di quel viaggio, “un salto nel buio, un tuffo nell’ignoto” ha detto, se avesse dovuto riassumere in tre parole ciò che è stato.

Il viaggio, la moto, la solitudine

“La paura è una ricchezza non sfruttata, è una possibilità di essere e di fare che noi lasciamo inesplorata. (..) Il viaggio, e a maggior ragione un viaggio che lascia a casa le abitudini, è uno dei modi per masticare la paura, digerirla, metabolizzarla, e trasformarla in energia del nostro corpo e della nostra mente”.
E la moto, come mezzo di trasporto, è capace di amplificare l’esperienza, perché costringe ad un’attenzione ininterrotta, ad un dialogo con gli agenti atmosferici ed il terreno, un equilibrio continuo ed incerto che fa riflettere, ricordare, fantasticare, scrivendo “pagine su pagine di un dialogo interiore fertilissimo”.
E se il viaggio in compagnia permette di delegare ma costringe ai compromessi, il viaggio in solitaria richiede presenza totale ma anche la possibilità di rapportarsi agli altri senza filtri, fedeli alle proprie modalità.

Afganistan: lo stigma

Non è facile giustificare, all’opinione comune, un viaggio turistico in un Paese sul quale si sono scritti fiumi di inchiostro, che ha prodotto solide certezze nelle opinioni condivise, suffragate o meno dalla realtà ma sicuramente pilotate dalle specifiche scelte editoriali e politiche dell’informazione. “Non andate in un paese dove le donne vengono trattate in questo modo”, scrive riportando quanto gli è stato spesso rimproverato, ma Radice è un giornalista e ha un’opinione contraria e ritiene che si debba invece andare proprio per vedere e raccontare ma anche per essere visti e raccontati. Non solo per verificare la veridicità delle fonti e l’autenticità o meno dei luoghi comuni, ma anche per dare voce a chi sta dall’altra parte e che raramente viene ascoltata da quest’altra parte del mondo.
Stigma che continua anche una volta lasciato il paese, in ogni altro confine incontrato di fronte al visto sul passaporto.

Afganistan oggi

Emilio Radice ci riporta le immagini di un Paese appena uscito da quarant’anni di guerre durissime e in cui si sono spesi miliardi di dollari in armi e distruzione, dove forte è la “percezione di disordine e anche di naturalezza, di un senso di anarchia destrutturante”, un paese distrutto dove tutto può essere e tutto può accadere, con l’assenza delle minime garanzie, di un’ambasciata che avrebbe potuto aiutarlo in caso di bisogno ma che non esiste in un Paese il cui Governo non è riconosciuto dal nostro. Dove le postazioni di artiglieria e il filo spinato, i buchi di mitraglia, le rovine, i ponti e le strade fatte esplodere testimoniano la guerra, dove macchine senza targa e furgoni in agonia sfiorano le donne infagottate nei burqua, sedute nella polvere con i loro figli “a chiedere alla povertà del loro Paese qualcosa per sopravvivere alla fame”, perché come vedove in Afganistan non possono lavorare. Donne assenti allo sguardo, fantasmi nelle zone del sud del paese dove i talebani sono partiti per conquistare il potere, ma anche donne velate in modo leggero nella valle di Bamiyan, dove c’è anche un liceo femminile e la popolazione non si sente afgana ma tagika. Un Afganistan dove la Cina si è già proposta come partner nella ricostruzione in cambio dello sfruttamento di giacimenti minerari e dove esiste il narcotraffico di oppio ed eroina.
Un paese distrutto dalla guerra, spietato, arretrato, dove la vita vale niente: “Qui c’è da fare e rifare tutto, qui c’è un’anarchia cenciosa faticosamente vestita da Stato, qui ci sono mille e mille autorità che non valgono nulla, ma tutte recitano la parte di valer qualcosa”. “Buche, strada, polvere dovunque, e una infinita, indecente, povertà”.
Ma anche persone accoglienti, curiose, sorprese di vedere un uomo anziano in sella ad una motocicletta attraversare un Paese abbandonato da tutti. Gente desiderosa di comunicare, di aiutare, curiosi anche di sapere cosa l’Occidente pensi di loro, “sorrisi sospesi tra gioia e timidezza, e la sensazione che “dopo tanta guerra l’Afganistan avesse voglia di pace e che i talebani avessero scelto una linea governista di maggior apertura e di minore fanatismo”.

La civiltà del passato

Eppure l’Afganistan era stato un crocevia di popoli e di culture, dove passava la via della seta con le merci, le conoscenze e gli Uomini provenienti dall‘Occidente, dalla Cina e dall’India, “dove la presenza di un massiccio montuoso, o di un bacino d’acqua, oggi come allora costringe a calcare le stesse identiche piste battute dagli uomini dal profondo dei secoli”. Dove ognuno ha lasciato qualcosa, e si possono trovare le rovine greche di Alessandro Magno e gli stupa buddisti, memorie di genti e di popoli che hanno prodotto più di una dozzina di etnie sorte da queste migrazioni. Paesaggi solenni “che ti costringono a fermarti per respirare il silenzio e il nulla, dove tu sei una minuscola puntina che graffia appena il solco di un’armonia irraccontabile”.
Dove il mondo ha gridato per la distruzione dei Buddha della valle di Bamiyan ma dimentica che fu l’esercito inglese a distruggere il Mosallah di Herat, la “Samakanda” afgana, dove un tempo sorgevano madrase ed imponenti moschee e di cui ora, in un recinto, rimangono cinque minareti: doveva essere liberato il campo di battaglia in previsione di uno scontro che poi non è mai avvenuto.
Appena lasciato il Paese, Radice si era promesso che quello con l’Afganistan non sarebbe stato un addio ma un arrivederci e ha mantenuto la promessa: a giorni ripartirà, in un altro viaggio in moto verso il nord, nel Kunduz, regione segnata dalle tracce delle antiche carovane dirette e provenienti dalla Cina, dove un tempo si incontrarono la civiltà ellenistica e quella buddista, accompagnato dai talebani conosciuti in questo viaggio.

Natascia Accatino
(5 maggio 2025)

 

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